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I mulini ad acqua e le piccole centrali idroelettriche

I  mulini ad acqua furono impiantati e  funzionarono per millenni. Ogni centro, grande o piccolo, ne disponeva e le popolazioni se ne servivano. Il più antico documento nel quale è nominato il mulinodalle nostre parti porta la data del 25 gennaio 1401 e precisamente nei Capituliconcessi da Giesmundo dSangro ai Palmolesi.

All’articolo 38 è menzionato il mulino ad acqua esistente in lo Vallone che si chiama Tresta(un affluente del Trigno).Quellostabilimento fu in funzione a tutto il 1789 e fino agli agli ultimi anni quaranta.

 

Della macinatura nel molino di Fresagrandinaria si accenna nell’articolo 22 dello Statuto Municipale concesso da Marino IVCaracciolo il 16 novembre 1687. Così come in quello di San Buono nella stessa data. Per quest’ultimo Comunefu precisato che i cittadini dovevano prestare lavoro per i riaccomodi al molino e alla Valchiera ma che avevano diritto di essere pagati. Ma, morto Marino, le ingiuste pretese, le angherie, i soprusi furono non solo ripristinati ma addirittura aumentati. 

 Fino alla eversione della feudalità avvenuta nel 1806  i feudatari proibivano  al popolo di vendere liberamente i loro prodotti se non prima a lui e ai suoi prezzi. I frantoi oleari, le taverne, le gualchiere, i forni per cuocere il pane, le scafe per guadare i fiumi e i mulini ad acqua appartennero ai singoli feudatari che li facevano gestire da persone di fiducia e che obbligavano i vassalli a servirsene con prezzi imposti. Ai privati era vietato possederne. I feudatari per di più  obbligavano i propri vassalli a prestare lavoro gratuito, a prestazione come si diceva, per le urgenti e necessarie riparazioni agli impianti, alle strade di accesso, agli argini e al formale adduttore. Anche ai lavori periodici di manutenzione ordinaria e straordinaria per i danni provocati dalle intemperie specialmente in inverno. Si riparavano pezzi di muratura, erezioni di muri a secco, sostituzioni di assi, di raggi  e pale della ruota usurati, sistemazione di travature e puntelli in legno, rimozione di terreno franato e quant’altro. La rendita del molino di Fresa nel 1676 fu di 136 ducati e nel 1707 di 150; a San Buono fu di ducati 180 nel 1676 e di 175 nel 1707.

  All’abolizione dei feudi gli impianti passarono al patrimonio dei Comuni che li concessero in gestione a privati cittadini con regolari contratti. Nel 1903 il mulino di Fresa era gestito da Antonio Di Vincenzo di Lanciano. Altri gestori furono i Ferragonio, i Larcinese e, per ultimi, i Forlano. ADogliola ve n’erano due di mulini: uno gestito da Rinaldo Carmenini e l’altro da Ferdinando Calvitti.

  A Lentella un mulino fu impiantato nei pressi della confluenza nel Treste del Vallone chiamato Canaloni. Anche San Salvo li aveva; così pure Montefalcone.  Castelguidone ne contava sei.

  Il 15 maggio 1919 il Comune di Fresa si accordò con talGiovanni Gorga di Montorio perl’istallazione a proprie spese di una centrale idroelettrica vicino al mulino sul Trignofornire la corrente: a pagamento ai privati cittadini fresani e gratuitamente al Comune per dieci anni per la illuminazione pubblica; fino ad allora funzionante a gas. Il primo impianto fu realizzato nel 1921. Anni dopo  la centrale di Fresa fu ceduta a Secondino Artese che riuscì a fornire energia anche a Lentella e San Salvo. 

  Le acque del formale adduttore servivano anche per l’irrigazione dei numerosi orti e frutteti coltivati nella fertilissima piana. I corsi d’acqua allora erano molto pescosi: cavedani, trote, barbi, alborelle, granchi, rane, anguille. Nelle risaie vivevano carpe e tinche allevate per distruggere le larve delle zanzare.

  Anche nella riva sinistra del Trignodogliolese nel primo ventennio del novecento, accanto al mulino, fu impiantata una piccola centrale idroelettrica; questa per opera di Orlando Vicci di Tufillo.

  Nel corso dell’ottocento furono impiantati da privati dei piccoli mulini anche lungo il corso del torrente Annecchia. Di essi si ricorda ancor oggi le famiglie proprietarie che li gestivano in proprio: Donato Di Stefano e i Terpolilli. I mulini ad acqua furono impiantati, così come le gualchiere, anche sul Treste. Ma avevano tutti lo stesso handicap: funzionavano soltanto quando il torrente portava sufficiente acqua per azionare la ruota e cioè nei periodi piovosi.

  Per poter macinare occorrevano lunghi tempisia per l’alta  affluenza che per la lentezza di lavorazione; spesso intere giornate. E la mugnaia, prendendo un pugno di farina da ciascuno ne faceva un pasto per tutti: le tacconèlle.

  Nel corso dei millenni i nostri antenati si dotarono anche di mulinelli domestici trasportabili, fatti con due macinelle di pietra dura, di preferenza lavica e scura come ci testimoniano i relitti rinvenuti ogni tanto nei campi, di forma circolare, poste l’una sull’altra. Erano munite di una maniglia di ferro o in legno, ben levigate e girevoli su un perno centrale, una foro nella parte superiore dove versare il cereale ed un altro inferiore dove fuorusciva il macinato; funzionavano con la sola forza delle braccia. La farina ottenuta non era certamente raffinata ma le persone di allora si nutrivano di tutto.

  E avvenne che il progresso avvenne anche da noi: ad un certo punto tali impianti furono abbandonati e dimenticati. A motivo del colosso UNES (Unione Esercizi Elettrici) fondato nel 1902 con lo scopo di produrre e distribuire energia elettrica in aree rurali e nelle piccole città del centro-sud. Tale Società acquisì produttori e distributori locali e con l’energia a basso costo prodotta nella grande centrale di Alanno riuscì a soppiantarle. L’invenzione e gli impianti di mulini non più a macine, (a palmenti come si diceva)ma a cilindri movimentati con l’elettricità, più funzionali, più comodi perché ubicati nei centri abitati, veloci, dal prodotto più raffinato, e non più soggetti alle piene e alle magre del fiume determinarono la definitiva scomparsa dei mulini ad acqua. Il primo impianto di Fresa fu opera di un tal Ferragonio in Largo del Carmine che poi rivendette i macchinari ai Di Vincenzo.

  Per molti anni il mulino elettrico – Marca Buthler– servì nonsoltanto l’utenza locale ma di tutto il vicinato. Accanto al macchinario per il grano funzionò una macina in pietra che sfarinò legumi, avena, orzo, spelta, per il pastone agli animali; e anche il granturco per l’alimentazione umana.

 Si pensava che i mulini a cilindri non fossero ulteriormente migliorabili ma non fu così perché si inventarono macchinari più grandi, più efficienti, più complessi e costosi. E finironosoppiantati anche loro.

  Il mulino di Fresagrandinaria cessò la sua attività negli ultimi anni novanta.

Alcuni termini dialettali inerenti:

abbiccatòurə → tramoggia
baschìje → basculla, bilancia a ponte
capiscèrtə → sito dove il formale ha inizio prendendo acqua dal fiume
carròttə → carretta a due ruote per spostare sacchi
formə → formale, roggia, canale di alimentazione
macinatìhurə → corrispettivo del lavoro
macinèllə → molinello a mano
manìərə → sessola
marrahòunə → vasca di scarico
mècənə → macina in pietra
misìhurəmuzzòttəquòrtəsòumətòmməle → misure locali antiche di capacità e di superficie. Corrispondevano più o meno (nell’ordine): 3,24,12,144,48 kg
ndriccatìhurə → macinato grossolanamente
sùocchə → sacco di canapa tessuto in casa, imbiancato col sistema del bagnasciuga. Come contrassegno di proprietà aveva qualche rigatura a colori (vergole). Aveva la capacità di una soma
-tacconèllə → pezzatura a riquadro della pasta fatta in casa
vòcətə → vecita → turno di lavorazione: chi arriva prima, macina prima
vrònnə → crusca
vulatìhurə → volatura → quantità di farina dispersa durante le fasi di lavoro. Se ne teneva conto nella pesatura finale.

  I mugnai avevano la nomea di ladri per cui si diceva: quando i mulinari litigano stringi il sacco perché ti fregano la farina.

Per poter macinare passavano delle intere giornate. Si diceva: sete di bosco e fame di mulino.

Pierino Giangiacomo