La lotta al virus tra medici, infermieri e cassiere
È vero: l’emergenza sanitaria che sta colpendo il nostro Paese sta imponendo all’Italia e ai cittadini italiani molteplici sfide, in ambito non solo sanitario ma anche economico-finanziario e sociale.
Gli ultimi due decreti emanati dal governo per contenere l’epidemia del Coronavirus sono “duri” e chiudono l’Italia, trasformandola di fatto in un’unica, enorme “zona rossa”. L’obiettivo dichiarato è quello di contenere il contagio, o meglio di rallentarlo, per non permettere al virus di arrivare troppo presto e in maniera troppo massiccia al Sud. A rischio, oltre alle vite di molti cittadini, c’è la tenuta dell’intero Sistema sanitario nazionale.
L’epidemia di Coronavirus (in Italia: 21.157 casi, 1.441 morti, a ieri)ha finora avuto maggiore diffusione in regioni in cui la sanità rappresenta un’eccellenza nazionale. Lo conferma l’ultima griglia Lea, la classifica con cui il ministero della Salute monitora il livello di qualità delle cure. Il Veneto è la realtà territoriale che assicura meglio di tutti i livelli essenziali di assistenza, le prestazioni sanitarie garantite ai propri cittadini. Poi viene il Piemonte, ma l’Emilia Romagna e la Lombardia sono molto vicine. Il Sud invece resta lontano. Calabria e Campania sono in coda. L’onda del contagio va insomma a impattare su un sistema sanitario non certo omogeneo sull’intero territorio nazionale, e già fortemente provato da un decennio di tagli alle risorse. Secondo un rapporto pubblicato in tempi non sospetti (settembre 2019) proprio dalla Fondazione Gimbe, negli ultimi 10 anni i mancati aumenti al finanziamento del Ssn a carico dello Stato valgono circa 37 miliardi di euro. In valori assoluti, in realtà, tra il 2001 e il 2019 (fatta eccezione per il 2012 e il 2015) il finanziamento a carico dello Stato è sempre cresciuto, passando da 71,3 miliardi a 114,5 miliardi di euro, ma con un aumento medio inferiore a quello già minimo dell’inflazione di questi anni. Gli aumenti alla sanità pubblica quindi sono stati ogni anno minori rispetto a quelli del bilancio precedente.
Una scure bipartisan sulla sanità che è durata anni, dal ministro Renato Balduzzi del governo Monti fino alla pentastellata Giulia Grillo, che ha preceduto Speranza. E che ha portato nel 2018 il nostro Paese a destinare risorse pubbliche per un valore pari al 6,5 per cento del Pil, molto minore rispetto a Germania (9,5), Francia (9,3) e Regno Unito (7,5). Già nel 2010, la sanità in Italia pesava per il 7 per cento del prodotto interno lordo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, “il nostro Paese ha dimezzato i posti letto per i casi acuti e la terapia intensiva, passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Un taglio del 51% operato progressivamente dal 1997 al 2015, che ci porta in fondo alla classifica europea. In testa la Germania con 621 posti, più del doppio (qui sotto l’infografica interattiva dell’Oms sui posti letto per casi acuti persi nei diversi Paesi dal 1997 al 2015).”
Le cronache di questi giorni hanno raccontato del personale sanitario allo stremo: la sanità pubblica nazionale ha perso, tra il 2009 e il 2017, più di 46 mila unità di personale dipendente.
Oltre 8.000 medici e più di 13 mila infermieri, secondo la Ragioneria di Stato. Cifre che da sole possono far comprendere come gli ospedali e i pronto soccorso, già sotto pressione al nord, potrebbero non essere in grado di reggere la diffusione dell’epidemia. (come, pare, stia già accadendo); specie nelle regioni del centro e del sud, ancora meno attrezzate e con minore personale. Come denunciato dal presidente dell’Associazione Medici Dirigenti, (Anaoo), “le strutture ospedaliere hanno perso, infatti, 70 mila posti letto, solo negli ultimi 10 anni.”
E gli altri lavoratori?
Proprio ieri Cgil, Cisl e Uil hanno sottoscritto con il Governo e le parti datoriali un “protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”. L’accordo sottoscritto dice un comunicato CGIL-CISL-UIL,” consentirà alle imprese di tutti i settori, attraverso il ricorso agli ammortizzatori sociali e la riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro. Nell’accordo è stato previsto il coinvolgimento dei lavoratori e delle loro rappresentanze a livello aziendale o territoriale per garantire una piena ed effettiva tutela della loro salute. Per questo è importante che in tutti i luoghi di lavoro si chieda una piena effettività dell’intesa che è stata raggiunta.” Ma come era la situazione prima di questo accordo? Ho voluto “gettare insomma un fascio di luce “anche su questa altra prima linea, impegnata ad assicurare un servizio necessario alla comunità, e farne quanto possibile un luogo dignitoso e protetto. Ecco alcune testimonianza che ho tratto da Rassegna Sindacale:
– “Ci sono da una parte le disposizioni del governo e dall’altra quello che la gente recepisce” osserva Flora, impiegata nel negozio Leroy Merlin di Brescia, dapprima chiuso come esercizio commerciale non essenziale, in seguito alle direttive governative ancora più serrate dell’11 marzo, e dopo solo un giorno riaperto. .. I clienti del negozio dove lavora Flora sono calati, ma sono sempre abbastanza, e se escono di casa “per venire a comprare una piantina c’è qualcosa che non va”, ci spiega. Niente che non possa essere rimandato a un momento migliore.
– “Noi nei supermercati siamo stati lasciati un po’ allo sbando – dice Sandro, che lavora in un negozio Conad di Desenzano del Garda – Il primo giorno dopo l’uscita del decreto sono stati esposti dei cartelli con avvisi e norme, in tarda mattinata, senza però che nessuno controllasse i flussi all’entrata, e le persone si ammassavano come sempre alle casse”. I controlli hanno maglie larghe anche in città, dove basta dire che ci si muove per lavoro o per fare la spesa per continuare a girare. “Fanno sempre vedere Milano deserta in televisione, come se fosse così dappertutto, ma domenica, l’8 marzo, e anche nei giorni seguenti, da noi ho visto ancora tanta gente in giro”. L’azienda ha fornito le mascherine, però il rispetto delle norme appare sempre vago e inadeguato. “Tra i lavoratori c’è frustrazione, rabbia, se non si seguono le regole si va a lavorare così, con questo stato d’animo: ci voleva qualche parola più decisa per noi”;
-“La gente non sa bene le cose, vive di fretta, non osserva la distanza di sicurezza – spiega Roberto, addetto dell’Esselunga di Curno, nel bergamasco –. Da noi i clienti si mostrano anche scocciati, non capiscono che si devono osservare queste direttive per il bene di tutti, il loro e il nostro”. I lavoratori vivono la nuova condizione, così velocemente accampata nel loro quotidiano, con ansia e apprensione. “È una situazione surreale. Le mascherine prima c’erano per chi desiderava usarle, poi dopo il decreto l’attenzione dell’azienda è aumentata e sono state distribuite a tutti. Ma quelle che ci arrivano sono di stoffa, non sono protezioni sufficienti, lo ha detto anche una dottoressa dell’ospedale. Basterebbe un po’ di attenzione, da tutte le parti. La distanza non è sempre rispettata e il numero di clienti in negozio non è sempre contenuto. Si creano assembramenti, se ne sono accorti e lamentati anche alcuni clienti: si accalcano alle casse e nascono facilmente delle tensioni”;
-“Abbiamo paura, ma cerchiamo di restare sereni e continuare a lavorare con pazienza, con la dedizione di sempre” racconta Rosanna, cassiera del negozio Margherita di Modugno, a Bari. Le casse sono le postazioni più difficili. “Ci sono clienti che riescono a seguire le nuove procedure, ad altri invece non importa niente, ci aggrediscono, ci dicono che è tutta una fesseria, che siamo noi che ci crediamo. Ho chiesto al direttore l’autorizzazione a rispondere, garbatamente, a questi attacchi e mi è stata accordata”. All’inizio dell’emergenza sanitaria Rosanna e i suoi colleghi hanno avuto i disinfettanti per pulire la postazione, poi è arrivato il detergente per le mani. Per ultime, solo dopo il decreto del 9 marzo, le mascherine, ma non ce ne sono per tutti. Dei segni sul pavimento indicano le barriere, i punti da non oltrepassare in attesa del proprio turno, ma non bastano. “Dobbiamo dire a ogni cliente di non superare la linea, di non avvicinarsi troppo. Ci parlano in faccia, ci stranutiscono davanti. Siamo in balìa del buon senso delle persone, o della sua mancanza. Ci vorrebbero delle chiusure per sanificare periodicamente l’ambiente, si potrebbe fare a meno di fare la spesa la domenica, ad esempio. “Ma continuiamo a fare il nostro lavoro responsabilmente”, conclude con qualche amarezza e tanta tenacia. “Non abbiamo altra scelta, dobbiamo stare sul campo”…
Quando tutto sarà passato, questi giorni non saranno dimenticati.
di Nicola Dario