La scorsa settimana, in occasione della giornata del 9 maggio, dedicata alla memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, ci sono stati eventi nonché contributi giornalistici sul tema, alcuni specifici sulla morte di Aldo Moro (anche con un intervento di Maria Fida Moro, che ha chiesto al Papa di fermare o rivedere
il processo di beatificazione dello statista, che lei ritiene a rischio di strumentalizzazioni). E va dato atto che anche quest’anno, nonostante il tempo che passa, sono state espresse riflessioni interessanti su Aldo Moro, Peppino Impastato (ucciso lo stesso giorno in Sicilia, dalla mafia, e ricordato pure a San Salvo) e le altre vittime del terrorismo, dello stragismo e della criminalità organizzata.
Tuttavia, alla loro memoria andrebbe accompagnata la riflessione di carattere più generale (che a San Salvo abbiamo cercato di sviluppare nel convegno del 2016), riguardo al contesto e al momento storico, in quanto la data del 9 maggio 1978 è divenuta per l’Italia una data simbolica, la data che segna una vera e propria cesura nella storia del Novecento: tra quello che c’è stato prima e quello che è venuto dopo (così come è accaduto con le due guerre mondiali). Il decennio 1968-1978, con la rivolta e i movimenti degli studenti e degli operai, può essere infatti riconosciuto come di grande cambiamento per il paese Italia in quanto fu proprio allora che si ebbero riforme che consentirono l’accesso alle scuole superiori e all’Università per tutti i giovani, miglioramenti economici e nei diritti per i lavoratori delle fabbriche, misure a favore della famiglia e della realizzazione di case per i lavoratori, il riconoscimento dei primi diritti alle donne in lotta per il raggiungimento della parità di genere; conquiste che avrebbero cambiato socialmente e culturalmente il Paese permettendo persino alle istituzioni una maggiore autonomia e laicità. Dunque gli anni 1968-1978 non furono (come alcuni giornalisti tendono purtroppo ancora oggi ad affermare) “gli anni del terrorismo e delle stragi” bensì “gli anni della democrazia”, diretta e indiretta, di una democrazia che l’Italia non aveva mai conosciuto prima e che, per taluni aspetti, non avrebbe conosciuto dopo, un momento irripetibile nella storia nazionale (quando politici e imprenditori erano costretti a misurarsi quotidianamente con il movimento di massa e le sue istanze). Lo stragismo di destra e di apparati istituzionali collusi e il terrorismo nero nacquero dunque con il fine di arrestare quest’onda popolare che politicamente avrebbe potuto portare verso un socialdemocrazia o verso una democrazia a forti tinte social-comuniste; così come il terrorismo brigatista e di altre sigle “rosse” andavano a costituire la risposta farneticante e violenta a tale “strategia della tensione” nonché , dopo il 1978, alla reazione di quei poteri forti che intendevano arrestare il cambiamento e avviare una restaurazione moderata.
La grandezza di Aldo Moro non sta pertanto solo nella moralità (che un politico dovrebbe comunque possedere, sebbene questo non porti consenso) ma sta soprattutto nella sua capacità di usare strategicamente la politica, cioè nella capacità di guardare al futuro cooptando nel governo, nell’amministrazione di volta in volta le forze e le energie del cambiamento, persino se ideologicamente diverse. L’apertura democristiana al Partito Socialista, negli anni ’60, aveva dato linfa alle politiche di sviluppo economico dell’Italia, in particolare del Sud-Italia; il governo di “solidarietà nazionale” del 1976 e poi di ipotetico “compromesso storico” nel 1978, con il PCI non più all’opposizione, avrebbe potuto produrre risultati utili se non fosse stato fermato con la sanguinosa azione di rapimento di Aldo Moro. Un Moro poi lasciato solo, in quella condizione di prigioniero, abbandonato persino dal suo partito e dallo Stato (uno Stato che allora si rifiutò di “trattare” con i brigatisti, in nome dei principi, ma che poi, pochi lustri dopo, avrebbe addirittura trattato con la mafia!).
È chiaro che la storia non si fa con i “se” e con i “ma”; tuttavia i mediocri risultati dei governi succedutisi nel periodo 1979-1992 sono difficilmente negabili, direi evidenti. In quella fase la politica, priva di strategia e di rinnovamento, piegando la propria attività sempre più al particolare e al clientelismo, avrebbe prodotto la crescita della corruzione fino all’esplosione di Tangentopoli (con i danni annessi e connessi) altresì indebitando il Paese per eccesso di spesa pubblica e provocando una progressiva diminuzione del P.I.L., cose di cui ancora paghiamo le conseguenze. E quella crisi, cosiddetta “della I Repubblica”, avrebbe aperto una fase nuova nella storia politica repubblicana portando alla ribalta leader più o meno carismatici e più o meno populisti che, salvo brevi interruzioni, hanno poi governato l’Italia dal 1994 ad oggi.
La lezione di Moro è dunque perennemente di attualità perché non si può intendere la politica come semplice gestione burocratica della cosa pubblica, con lo sguardo cioè attento solo al presente, o peggio come carriera bensì come impegno ad osservare e a confrontarsi con la società per coglierne esigenze ed aspettative al fine di costruire - con le risorse disponibili - un progetto condiviso per il futuro, attestato che l’evoluzione sociale è rapida e che gli ambiti operativi si dilatano sempre più dal locale in direzione del nazionale, dell’europeo e del globale.
Giovanni Artese