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Scritto da Sansalvomare

ventricina

La ventricina e l'animale nero: tra storicità e «TOPICITA’»

VASTO | 1.Più che risposte ho prospettato domande negli interventi sulla “ventricina” tenuti a Palmoli e a Lentella qualche giorno fa nel contesto del Prodotto Topico. Non si può fare altro quando parliamo

di un alimento composito che dovrebbe essere pratica di “filiera corta” interamente giocata nel luogo: a partire dall’allevamento e dalla razza suina utilizzata per la manifattura del salume. Se non parliamo di questi elementi connotativi dell’ insaccato, non possiamo certamente discutere di “topicità” del prodotto. Concetto, questo, che, sul versante della gastronomia, implica l’interdisciplinarità di cultura e cibo. Da questo punto di vista, gli interrogativi da porre sono almeno due. I seguenti:

• esistono allevamenti di suini nell’area del Vastese (comprendendo in questa configurazione lo stesso territorio a sud del Trigno)?
• si usa un maiale di razza abruzzese (se esiste) o carne comune?

Non vi sono dubbi. In un eventuale certificazione di “prodotto topico” non può essere eluso il tema dell’allevamento del maiale nella zona. È come se dicessimo: produciamo il Montepulciano d’Abruzzo da uve provenienti da vitigni piemontesi. Per essere ventricina “topica” il maiale deve essere allevato nell’area di riferimento. Non solo. Ma il salume deve basarsi sulla razza suina che, storicamente, meglio risponda alle caratteristiche dell’ambiente. In altre parole, per un mercato di qualità, non si può utilizzare la comunissima Large White destinata alla produzione industriale. Ottima quanto si vuole; ma non “topica”. Qual è, dunque, il maiale che meglio si attaglia a tali esigenze? Presto detto: il maiale nero d’Abruzzo; un animali brachicefalo, con orecchie piccole portate in avanti e quasi cadenti. Mantello nero con pelliccia abbastanza rada, ben coprente e morbida. Va da sé che, “riscoperta” e tutelata da pochissimi anni, questa razza autoctona diventa strategica per la produzione della ventricina “topica”, destinata a un mercato di “nicchia”. Davvero autoctona questa razza? Se la è davvero, fino a quando utilizzata? 2.Andiamo per ordine. Proviamo a leggere il passaggio di un testo ad hoc pubblicato nel 1880 dal direttore dell’allora neonato Istituto Agrario di Scerni. Lo scritto predisposto da Niccola Colonna per l’inchiesta Jacini e pubblicato autonomamente (L’agricoltura nel circondario di Vasto, Lanciano, Carabba, 1880) afferma quanto segue: «L’allevamento dei suini è molto diffuso, specialmente nella zona montuosa e mezzana; ogni contadino ne ingrassa tre o quattro capi, di cui formano in inverno delle mandrie che vengono spedite a Napoli. La razza predominante è indigena del Circondario, e molto facile ad ingrassare. […] Il governo, il Comizio Agrario ed i privati non hanno mai pensato di introdurre nuove razze» (p. 57). Stando a questa testimonianza ,la razza autoctona esclusiva è quella originaria abruzzese almeno fino a tutto il XIX secolo (torna utile aggiunge che, pur essendo parte integrante delle razze italiane, è considerata senza registro anagrafico). Si faccia attenzione: «Il governo, il Comizio Agrario ed i privati non hanno mai pensato di introdurre nuove razze». Da tale punto di vista, non si hanno elementi documentari per fissare il momento di abbandono di questa specie originaria. Va detto, però, che durante il convegno di Lentella, Giuseppe Roberti , macellaio della stessa località, ha riferito che suo nonno utilizzava il maiale nero per la confezione di tutti gli insaccati. Una testimonianza importante che ne riconduce l’uso alle prime fasi del Novecento. Stando così le cose, il suo odierno recupero può aprire a un diverso rapporto con il gusto della ventricina. Nel senso che grazie a questa pratica archeologica del sapore è possibile ritrovare il meccanismo che ha determinato la genesi del prodotto lavorato. Una cosa è certa. Si rimane sorpresi se si pensa che il maiale abruzzese è di carne magra. Lontano, dunque – (parlo per ventricina e porchetta) – dal “grasso” con cui oggi si connota il suo prodotto lavorato. Proseguiamo ancora nella riflessione. Da quanto si legge nella relazione dello scernese Niccola Colonna i contadini allevavano tre quattro/ capi a testa per poi formare mandrie da vendere a Napoli. Non per autoconsumo, ma per il mercato. E con un preciso obiettivo. I coltivatori, insomma, per i pochi capi di cui dispongono, operano sull’animale vivo, non sull’insaccato. Con un’ulteriore domanda : come può nascere una tecnica lavorativa specialistica come la ventricina in un contesto agricolo bracciantile che, tra l’altro, per il fatto di ingegnarsi sul vivo e non sulle carni, si rivolge all’esterno e non all’interno? Da questo punto di vista, vale la pena guardare al passato e fare i conti con una raccolta di dati di metà Settecento molto importanti. In effetti, non può essere sottaciuto il censimento (con Apprezzo) dello stato avalosiano di Monteodorisio (tredici comuni) eseguito in occasione della redazione del Catasto onciario (1742).I documenti sono conservati nell’Archivio Storico Comunale di Vasto.

Porto come esempio l’Apprezzo di Liscia:

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In alto sono indicati i mestieri. In basso, gli abitanti (anime)

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In alto sono indicati i capi di bestiame presenti nel paese. Con “neri” si intendono i maiali.

Il primo elemento che emerge dalla elaborazione dei dati è l’assenza di macellai in questi paesi (cfr. la Tabella n. 1 in appendice). Il che vuol dire: poteva un bracciante settecentesco (dedito alla semina e ai raccolti)inventare una tecnica così particolare? Quali potevano essere le conoscenze ad hoc di un bracciante? Come tutti sanno, non c’è storicamente alcuna identità tra coltivatori e allevatori. E soprattutto se guardiamo al Moderno, ci accorgiamo che solo dagli allevatori poteva emergere una tecnica produttiva delle carni. E poi, a dirla tutta, quanti erano i maiali disponibili in una comunità? Solo Villalfonsina ha un rapporto elevato: sette capi per abitante. Poi si scende vertiginosamente a Monteodorisio con un saldo negativo di appena 0,773 e Villa Cupello di 0,527. L’unico comune collinare leggermente più in avanti di Cupello è Furci: 0,539. Tutti gli altri con percentuali molto al sotto della metà. Con le punte minime di Lentella con 0,092 maiali per abitante e Liscia addirittura con lo 0,046. Può nascere una tecnica lavorativa così specialistica con un’offerta di carne così bassa? La risposta, ovviamente, è in re ipsa. Ma, poi, c’è da chiedersi: come mai l’allevamento dei “neri” è più diffuso nelle prossimità dell’area costiera che non in quella di media e alta collina? Non è forse vero che i maiali di razza abruzzese preferiscono il freddo e non il caldo? A questo punto la questione del clima diventa dirimente.
In effetti, non dobbiamo stupirci di una simile constatazione. Il clima in quell’epoca è freddo, legato alla Piccola Era Glaciale – la cosiddetta PEG – (che va dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo). Da questo punto di vista, il rapporto clima-ambiente diventa importante per capire il senso della produzione agro-alimentare locale. I dati locali più antichi sul clima sono quelli rilevati dall’Osservatorio Meteorologico di Vasto istituito nel 1877 dalla Società Meteorologica Italiana e sono relativi al decennio 1880-1889 (con sede prima a S. Onofrio e poi all’Aragona). Come si vede, dati coevi nel contesto della storia del clima: purtroppo non raffrontabili con rilevazioni precedenti o con luoghi vicini (ad esempio, diminuzioni medie di 0,5° determinano veri e propri sconvolgimenti nei rapporti naturali e antropologici. Il Tamigi ghiaccia nella Londra del 1815. Il libro di W. Behringer, Storia culturale del clima, Torino, Bollati-Boringhieri, 2013, offre spunti molto interessanti per procedere in analisi di questo tipo (che, ovviamente, non riguardano il presente intervento). In ogni caso, chi ha interesse alla esigua serie decennale climatica tardo-ottocentesca di Vasto può consultare l’unico testo disponibile (con tutte le rilevazioni allora effettuate) : vale a dire, A. Polsoni, Ricerche sui principali elementi del clima di Vasto, Vasto, Tip. Zaccagnini&Lattanzio, 1914.
Che cosa ci dicono le informazioni del 1742? Che i maiali neri non reggono il clima freddissimo di collina e montagna, ma si adeguano a quello meno rigido della costa. Da questo punto di vista, assistiamo alla modificazione del paradigma storico di riferimento. L’allevamento diventa preferibile nelle aree dislocate nella prossimità della costa.

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Una pagina del libro di Alfredo Polsoni sul clima di Vasto


3. Laddove la carne di maiale può essere lavorata esistono regole statutarie rigidissime che ne regolano l’attività. Se si pensa che, sempre nel 1742, su una popolazione di 4933 abitanti, Vasto ha appena quattro macellai, si può ben capire quanto sia rilevante questo mestiere. Proviamo a vedere che cosa accade nella gestione degli animali neri.
Data 14 gennaio 1636 l’atto rogato da notar Alessandro Fantini con cui l’ Universitas Vasti Aymonis appalta la vendita di carne suina a Giuseppe Mancino imprenditore della stessa città. Nel documento stipulato tra i due contraenti sono chiaramente definite le clausole cui deve attenersi il partitario (vale a dire il grossista) per garantire l’approvvigionamento a scala urbana del prodotto. Proprio per l’importanza che il testo riveste nella storia dell’alimentazione locale diventa utile leggerlo nella sua interezza:

CAPITOLI DEL TAGLIO DELLA CARNE DEL PORCO DA FARSI NELLA TERRA DEL VASTO

UT INFRA

In primis chi vorrà pigliare l’obligo di tagliare carne di porco domestico in questa terra del Vasto sia obligato cominciare a tagliare domani 15 de genaro e da fenirse per tutto lo dì di carnevale prossimo venturo sino alle doi hore de nocte.
Item che lo futuro affittatore e partitario sia tenuto, et così si habia da obligare con bona et sufficiente pregiaria di tagliare la detta carne di porco, che sia bona et recipiente, e sana fresca e non stantia, ne fetida da recognoscersi dalli Catapani.
Item che detto partitario sia tenuto di tagliare et fare tagliare detta carne ogni giorno di carne, e lo sabbato per la domenica, cominciando dal vespero del sabato et poi sequitare la matina dello detto giorno di domenica sino a sera.
Item che detto partitario non habbia a fare mancare detta carne, et darne a sufficientia ad ogni persona che ne vorrà comprare, et mancando per ciascheduna volta et per ciascheduna persona che non trovasse carne il partitario incorri in pena di carlini quindeci da aplicarsi doi parte al Università e l’altra parte al Signor Viceconsole.
Item che detto partitario sia tenuto et obligato di dare carne per salare a tutti et qualseuoglia citadino o pizzicarolo che ne vorrà et a sufficientia conforme da ciascheduno serrà recercato senza che si possa excusare et allegare qualseuoglia ragione che potesse apportare a quale esso partitario debbia renuntiare sotto la medesima pena di carlini quindeci per ciascheduna volta, et per ciascheduna accusa che se li farrà da aplicarsi ut supra.
Item che detto partitario sia tenuto tagliare detta carne di porco ogni giorno come si è detto di sopra, eccettuati li giorni di venerdì e vegilie, però per li giorni de sabato e delle vigilie debbia tagliare ad hora di vespro, sequitando la giornata di carne sotto la medesima pena da aplicarsi ut supra.
Item che detto partitario sia tenuto assistere, e tenere aperta la becaria, e dare carne a tutti che ne vorrà comprare, dandoseli solamente doi hore la matina di termine che possa andare a magnare, cioè li 18 et li 19 hore, tutto lo remanente del giorno al uscita del sole sino li 23 hore sonate debbia sempre assistere a detta becaria a tagliare detta carne sotto la pena predetta da aplicarsi ut supra per ciascheduna volta.
Item che sia in libertà di ognuno tagliare qualseuoglia carne, etiam di porco selvaggio, capri, baccini et altri animali eccettuato il porco domestico.
Item che detto partitario debbia vendere li ventri ad ognuno che ne vorrà comprare e non ad uno solo sotto la medesima pena et volta da aplicarsi ut supra.
Item che li pizzicaroli non possano comprare da altri carne di porco domestico per fare salati eccetto da esso partitario.
Item che detto futuro partitario a chi restarà ad estinto di candela detto obligo debbia dare idonea e sufficiente pregiaria di osservare ad unguem tutti detti Capitoli, et mancando oltre le dette pene ut supra dechiarate sia tenuto ad ogni danno, spese et interesse, et sia lecito al Università di fare tagliare et vendere carne di porco a quel prezzo che troverà a spese, danno et interesse di detto futuro partitario, et così se ne debbia obligare con detta pregiaria.

Come si può notare, innanzitutto, il documento non rinvia a un vago e generico illud tempus. Ha un riferimento cronologico molto dettagliato: perfino nel suo aspetto calendariale. Esso fissa la macellazione e la vendita del porco domestico tra il 15 di gennaio e il martedì grasso del 1636. E considerando che, in quell’anno (bisestile), la festa mobile di Pasqua cadeva il 23 marzo – con Le Ceneri, il 5 dello stesso periodo –, va da sé che il periodo di settuagesima – quello del carnem levare (per intenderci, il carnevale) – non poteva che risultare compreso tra il 17 gennaio e il 4 marzo. Orbene, per garantire il soddisfacimento del mercato nell’arco di quei 47 giorni, l’abbattimento dei maiali cominciava due dì precedenti. E se è vero che, di fatto, il loro consumo aveva inizio la sera del 16 gennaio per consentire il potlatch di S. Antonio, è ancor più vero che l’intero ciclo di produzione e commercializzazione dell’alimento non poteva in nessun modo superare l’a quo e l’ad quem stabiliti (al contrario gli Statuti tardocinquenteschi di Lanciano fissano al primo novembre l’inizio della macellazione dei suini) . Stando al dettato dei capitoli, venerdì e vigilie restavano esclusi dal taglio dell’animale. Si capisce perché l’avvio veniva anteposto al 15. Al di fuori di questi giorni, la beccheria era obbligata a rimanere aperta dall’ora prima ai vespri (tenendo conto dell’ora canonica), salvo l’interruzione di due ore per il pasto del partitario. Le penalità erano rilevanti per chi non rispettava i regolamenti. La lavorazione della carne (senza dimenticare il trattamento dei salumi) era temporalmente limitata per quella di maiale, non per le altre polpe.
Come si può notare, è la carne suina nel suo complesso a essere normata. Macellai e privati sono sottoposti alla stessa disciplina. La ragione è semplice. Oltre alla specificità delle lavorazioni, ciò che conta è pagare la gabella per lo scannaggio (la gabella è l’imposta indiretta sugli scambi e sul consumo delle merci). E nessuno, proprio nessuno, anche per l’autoconsumo più stretto, può sfuggire al rigido controllo del fisco – impersonato dall’invisa figura dell’esattore-gabelliere –. L’ “ammazzamento” del maiale può essere praticato solo dove esiste lo “scannaggio” (che non è ancora il mattatoio, ma la bottega del macellaio grossista autorizzato a tale funzione [il partitario, come viene chiamato nel Seicento ). In ogni caso, il consumo della ventricina risulta già diffuso nel Settecento. Il mercuriale più antico di Vasto, datato 12 aprile 1800, ne registra la vendita. Il documento, purtroppo, presenta vistose macchie d’inchiostro. Oltre a quest’ultimo, presento il mercuriale dell’anno successivo – datato 4 aprile 1801 – che ne attesta l’uso. Si noti bene, l’unico insaccato (perché c’è anche il formaggio) ad avere l’attributo di “vecchio” – vale a dire, “stagionato” – è la ventricina che è sempre definita ventricina vecchia.

Il mercuriale di Vasto datato 12 aprile 1800 (cfr. la sottolineatura bianca). La ventricina è indicata, in alto, con la freccia bianca)

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Il mercuriale di Vasto datato 4 aprile 1801. La freccia in azzurro indica la Ventricina


4.Nessuna conclusione. Nemmeno provvisoria. Le mie sono considerazioni in fieri che cercano solo di individuare un possibile metodo per definire la storicità di un prodotto alimentare (aggiungo che, in questa sede, manca ancora una ricognizione sul peperone e sul lavaggio del budello). Ripeto: parlo di storicità, non di topicità. Mi spiego. Dopo quanto detto, risulta evidente che la ventricina ha origini da un maiale (nero) con carne magra. Il che vuol dire: quanti sono disposti a giocare su un mercato di nicchia centrato su questo tipo di polpa? Oppure il versante economico ha bisogno di fissare la sua topicità, nel primo torno del Novecento, nel passaggio dall’animale nero alle carni italiane “grasse”?
Si stratta solo di capirlo. Io ho posto solo un problema.

Appendice 1

comuni 1

Appendice 2

comuni 2Luigi Murolo

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