«DE CAPSICO». L’avventura del peparolo in Abruzzo Citra VASTO| È Gennaro Finamore, nel suo Vocabolario dell’uso abruzzese (1880, 1893), a restituire con il lemma dialettale peparóle ciò che il coevo dizionario italiano Tommaseo-Bellini (1861-1874) definisce peperone.
Quasi non bastasse, nell’edizione Carabba (1880), lo stesso Finamore utilizza come sinonimo il termine Pepedìneje con il valore semantico di “pepe d’india” che verrà precisato nel 1893, nella seconda edizione del dizionario dialettale. A partire da ciò, il dato lessicale avrebbe trovato conferma negli Atti dell’inchiesta agraria Jacini, pubblicati a parte dall’agronomo incaricato per il Circondario di Vasto (N. Colonna, L’agricoltura nel Circondario di Vasto, Lanciano, Carabba, 1880). Da questo momento in poi, il peperone avrebbe trovato la propria documentazione, con tale forma lessicale, nel contesto delle scritture ufficiali. Allo stesso modo in cui il solito capsicum avrebbe trovato la propria identità nominale nella Statistica murattiana del 1811 (mi riferisco alle pagine dedicate all’Abruzzo Citra) nella variante lessicale pepone. Grosso modo compresi nel range cronologico di un settantennio (1811-1880) – con l’avvicendamento di ben tre monarchie regnanti (napoleonidi, borboni, savoia) –, peparóle e pepóne si trovano a essere termini che vengono a designare sempre lo stesso prodotto ortense.
La scoperta del “vocabolario” originario e dei nomi che, nel corso del tempo, hanno variamente lasciato sussistere la presenza della cosa costituisce il punto da cui iniziare. Così, se è vero che, parafrasando una citazione di Bernardo Cluniacense, Umberto Eco ricorda come «stat rosa pristina nomine» aggiungendo che «nomina nuda tenemus» (il che vuol dire: «la rosa originaria esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi», è ancor più vero che, parafrasando Eco, potremmo dire: «stat capsicum pristina nomine, nomina tenemus».
Una cosa è certa. Quando un prodotto è menzionato in una statistica o in un’inchiesta del passato ciò vuol dire che lo stesso ha un valore commerciale di massa. Proprio per tale ragione non dovrebbe trovare riscontri negli antichi ricettari di cucina, testimonianze di status sociale e, contestualmente, di internazionalizzazione aristocratica del gusto. Ricettari che, profilando il modello conviviale delle «buone maniere», vedono nell’autodisciplinamento alla tavola la fondazione del codice semiotico alimentare del nobilis homo ludens. Gli scalchi – che ne erano autori – utilizzavano, per la loro attività, prodotti di rara disponibilità sul mercato oppure con preparazioni particolari. È talmente vero tale assunto che, in un’opera dedicata al cibo vegetariano (V. Corrado, Del cibo pitagorico ovvero erbaceo, Napoli, Raimondi, 1781), a proposito dei cosiddetti peparoli, il grande scalco Vincenzo Corrado scriveva (p. 81):
«Sono i peparoli anche di rustico volgar cibo, ma sono però a molti di piacere; particolarmente agli abitanti del vago Sebeto, i quali li mangiono, mentre son verdi, che li friggono, e polverati di sale, o pure cotti su la brace, e conditi di sale e olio». Come si può notare, il buon Vincenzo Corrado prende subito le distanze dal capsicum in quanto tale avvertendo subito il dovere di precisare: «Sono i peparoli anche di rustico volgar cibo». Malgrado ciò, si trova costretto ad ammettere che i peparoli «sono però a molti di piacere». Alla fine del XVIII secolo, la crisi dell’ancien régime consente aperture di “gusto” (prima inammissibili) a vivande popolari soprattutto napoletane (non va dimenticato che il monaco benedettino Vincenzo Corrado era il cuoco personale di Ferdinando IV. E che proprio tale sovrano aveva ricevuto il soprannome di re Lazzarone per le frequentazioni giovanili dei lazzari). Era normale, dunque, che, nell’ultimo torno del Settecento, la cucina di re Ferdinando, potesse trovare attenzione verso piante ortensi che, «un po’ per celia, un po’ per non morire», potremmo definire sottoproletarie. E non è forse vero che lo stesso Finamore (1893) aveva registrato la voce abruzzese lażżaréttә per designare il peperone piccante? Ma su di un aspetto Corrado sembra non transigere: l’esclusione dal suo ricettario di peperone diverso dal verde. Da dove lo si capisce? Lo si comprende dal fatto che le sette ricette da lui esibite sono legate esclusivamente all’uso di peperone verde.
Ora, se gli «abitanti del vago Sebeto» (vale a dire, i napolitani) prediligono il peperone verde, che cosa accade nelle aree nord-orientali del Regno, quelle che affacciano sull’Adriatico? Proviamo misurarci con un atto notarile del 1752, rogato trent’anni prima della pubblicazione del libro di Corrado, che, fino a oggi, costituisce la traccia più antica di questo prodotto in Abruzzo Citeriore. Pubblicata da Nicola Fiorentino (In terra Casularum, Regesti, voll. I-X, Lanciano, 1991-2000) e individuata da Giuseppe Manzi, ideatore e progettista del Museo del Peperone dolce di Altino (su questa struttura cfr. G. Manzi, Il Museo del Peperone Dolce di Altino, in «D’Abruzzo», n. 113, 2016, pp. 54-57) restituisce un’immagine molto nitida degli abusi d’ancien régime nel XVIII secolo: il prelievo forzoso e violento di undici misure (1 misura = lt. 4,60 = kg. 5) di “peparoli o farchioli” ordinato quattro anni prima (1748) dal signore del luogo, Giovanni Antonio Nanni. I “peparoli” sono parte di una denunzia collettiva prodotta da più abusati. Un vero e proprio cahier de doléances rogato da notar Giovanni Gualtieri di Gessopalena contro il barone. Un atto per trovare giustizia presso la Regia Udienza di Chieti:;
[…]. Detto Rocco Di Donato ave asserito come esso magnifico barone, nell’anno 1748, pretendendo esiggere la pena della copertura, mandò il suo fattore in casa d’esso costituto con guardiani et altre persone, e forzosamente li prese circa tomola nove di grano. Ed avendoli ricercato il ricevuto d’aver soddisfatto, li rispose detto fattore che doveva andare in casa della Corte. In capo di giorni quindeci, di nuovo mandò in sua casa li guardiani predetti e forzosamente li presero misure undeci di peparoli o farchioli, una quarta di grano, quattro misure di fave ed una misura di orzo. E perché in detta casa non vi erano persone che due nipoti, una delle medesime per paura, o perché calpestata dai guardiani, se ne morì. […] Ma che strano! Del “peparolo”, in questa sede, conosciamo la data di sua “pristina” attestazione in Abruzzo Citra (si ricordi quanto già detto: «stat capsicum pristina nomine»). Ignoriamo l’esito legale della vicenda. Ma se questo è vero, ciò non significa escludere il contesto che apre all’ interpretazione dell’evento narrato (chissà se il Di Donato avrà potuto cantare come la plebe napoletana aveva cantato al tempo di Masaniello la seguente strofa: «Oh che spasso, che bellu sfizije / quanno venne la ggiustizia / ca diceva: “mo’ che ne spieri” / pave hoggi chello d’ajjeri»). Proviamo a seguire questa via attraverso tre domande cui corrispondono analoghe risposte.
La prima. Ha qualche plausibile spiegazione un brutale prelievo forzoso per appena kg. 55 di peperoni, per un sovrappiù di grano, per qualche chilo di fave o d’orzo? Nessuna dal punto vista economico. Politica, forse sì. Nel senso che, con tale operazione, il barone avrebbe potuto temporaneamente ristabilire sulla comunità un comando fondato sul terrore.
La seconda domanda: Ho accennato alla non-econonicità di un’aggressione per sottrarre prodotto di regolare commercio. Il grano, ad esempio. Ma se si tratta di un prodotto raro o, se si vuole, poco usato, allora si può dire che l’orizzonte diventa meno oscuro. Nel senso che l’abuso trova spiegazione nella sbrigativa ricerca di qualcosa di potenzialmente utile ma di cui si conosce poco.
La terza domanda. Da che cosa nasce l’osservazione? Molto semplice. Si tratta di rispondere al seguente interrogativo: è possibile ipotizzare una sequenza di abusi a distanza di quindici giorni senza una motivazione? Una sequenza vessatoria non sopportata da altri homines terrae Gypsi? E il secondo abuso nella stessa abitazione per appena mezzo quintale di prodotto? Di un abuso, peraltro, condotto in modo talmente brutale da provocare la morte violenta di una ragazza? Certo, il barone andava alla ricerca di “qualcosa” sfuggita o non trovata la prima volta. Alla seconda, si trattava di non sbagliare. Volendo costruire un ragionamento abduttivo su queste tre domande, realizziamo il seguente schema: Risultato Sono due i prelievi forzosi condotti in un’abitazione alla ricerca di “qualcosa” Regola Tutti i prelievi sono riconducibili agli stessi prodotti Caso Solo nel secondo prelievo si riconosce un prodotto che manca agli altri: il peperone In base a tale procedura ermeneutica riusciamo a spiegare la motivazione che spinge il barone a visitare due volte l’abitazione. E sono diverse le conclusioni che si raggiungono con la deduzione o l’induzione. Ciò che interessa precisare, in termini generale, è la relativa velocità con cui, nel sec. XVIII, il “peparolo” conquista il suo spazio nel contesto del cibo pitagorico. In realtà, già il marchese Vincenzo Tanara, agronomo bolognese del XVII secolo autore di un celeberrimo manuale dal titolo L’economia del cittadino in villa (I ed., 1644) , aveva discusso del pepe americano come successore in cucina del pepe d’india. Ne aveva previsto il brillante futuro. Ma occorrerà attendere il secolo successivo per cogliere fino in fondo le grandi intuizioni dell’agronomo divenuto scalco. Proviamo a leggerne qualcuna (cito da V. Tanara, L’economia del cittadino in villa, In Venetia, Curti, 1674, p. 278. Il testo è disponibile sul web) e ci renderemo conto del tenore argomentativo delle stesse: Il pepe americano, per hauer fortore, com’il pepe orientale, altrimente dello silique detto siliquastro, ouero indico chiamato da Auicenna Gingeuo Canino, potrà succedere, nell’horto, e nella cucina al pepe orientale, quale non si può hauer verde per le qualità del clima, e il secco con molta spesa, et il ligustico d’Apicio pare non si ritroui. Seminasi tra marzo, et aprile, in vasi o in terra grassa, trapiantarsi nelli stessi luoghi, questo fa certe silique, quasi cornecchie, o certe bacche rotonde, o fatte a meloncini, o altre forme, prima verdi, poi maturando al sole si fanno rosse, con questo colore, e le sudette varie forme ornano il tuo horto, ma per seruirtene in cucina, ti conuiene fare che siano rosse, e staccate, all’ombra farle asciugare […]. A differenza di Corrado, Tanara preferisce il peperone rosso rispetto al verde. Lo preferisce perché suo referente sociale non è l’aristocratico che (come avrebbe spiegato il Corrado) esclude dalla sua mensa il peparolo, ma il ricco borghese delle città; il mercante, l’industriante che vive nei centri urbani e che si reca nella residenza di campagna per godere di quei prodotti (sull’argomento cfr. L. Murolo, Le muse fra i negozi. Letteratura e cultura in un centro dell’Italia Meridionale, Roma, Bulzoni, 1992), Dunque, un soggetto che vede di buon occhio le novità alimentari che provengono dal nuovo mondo. Un soggetto, insomma, che, pur avvicinandosi a tali prodotti, trova ancora difficili da reperire sul mercato e che, per averne disponibilità, dovrà egli stesso seminare.
E che cosa accade nelle aree meno urbanizzate della penisola? La vicenda di Gessopalena risulta in tal senso è emblematica. Un episodio drammatico che esplicita il lato oscuro dell’inserimento di un nuovo prodotto ortense nel variegato scenario alimentare della Penisola. 1644 – 1748 – 1781: tre date che segnano il percorso di quello strano oggetto del desiderio chiamato peparolo. Poi lo abbiamo conosciuto come peperone. Andiamo adesso a Altino: lo conosceremo nei dettagli!
Luigi Murolo