Stamattina sono stato all' obitorio vastese per rendere l' ultimo saluto ad Emilio Cavallone, cui mi legava un rapporto di cosiddetto "comparatico", studiato dagli antropologici come "parentela fittizia", in uso nelle aree più cattoliche e meridionali italiane, in cui sono ancora vive le tradizioni della società agropastorale. Mentre eravamo nella camera ardente e parlavo con il figlio Peppino, mia madre, che era con me, mi ha detto se non fosse il caso di andare. Che è una cosa che non succede mai.
Generalmente sono io a chiamare tempo. Per cui mi sono chiesto perché il tempo fosse volato, mentre eravamo lì al cospetto di compare Emilio. Ed ho realizzato che era stato come tornare, ai tempi della mia fanciullezza, allorquando andavo a trovare mia nonna. La quale abitava "fore a luarghe" a Fresa e la cui casa delimitava un piccolo slargo, insieme alle abitazioni di sua cognata Natalina, di compare Emilio, dei genitori di Basso Ottaviano, dei nonni di Vincenzo Larcinese, di zia Angiolina Barone e della sua famiglia, dei compari Linda e Peppino. Ci sono anche le case della mamma di Fabrizia e di Maria e Rino, che però sono più giovani dei nati all' inizio del secolo scorso.
Di loro adesso è rimasta in vita solo la vedova Cavallone. Si tratta di una generazione che non ha fatto in tempo a vedere la prima guerra mondiale, ma che si è formata durante il fascismo ed ha vissuto le ristrettezze dell' ultimo conflitto, ha visto emigrare tutti i suoi figli: verso San Salvo e Vasto e verso Roma, Milano e la Germania. Era una generazione che viveva come tutte le precedenti: di campagna, avara campagna, quando non andava in guerra. Partecipava ai rituali di quella società contadina (proprio l' altro ieri mio cugino Orazio mi ricordava i miei zii, che giravano per cantare il "buon capodanno"), compresa la mattanza del maiale, a lungo fonte di sostentamento dei rigidi inverni da passare davanti ai caminetti.
Oltre ai rituali della tradizione, ai funerali, ai matrimoni, alle campagne elettorali ed ai tornei di calcio, la socializzazione (quella macro) avveniva per le donne in Chiesa e per i maschi in cantina.
La microsocializzazione avveniva, invece, davanti le proprie abitazioni, dove le donne si sedevano nelle stagioni più calde (ovviamente quando non chiamate dai lavori dei campi) e facevano l' uncinetto e i "parragoni" (pettegolezzi sulla vita paesana).
Per tutte le donne anziane di "fore a luarghe" quando arrivavamo i miei cugini ed io era come se arrivassero i nipoti, giacche i nostri padri erano per loro dei figli, che avevano cresciuto lì nell' immediato secondo dopoguerra. E loro per noi erano come delle nonne, giacché quell' abitato era una famiglia, cosa che spiega perché i nostri avi si erano "fatti a compare". Quella società non c' è più, perché le socializzazioni ora non avvengono né in Chiesa, né nei bar e men che meno davanti casa, anche se sarebbe il caso di farlo studiare e leggere quel vissuto ai nativi digitali. Per questo consiglio i libri Fresa me' di Pierino Giangiacomo e Pensieri sparsi di Gabriele Evaristo Di Stefano.
A noi, che digitali non siamo, ma comunque una forma di dipendenza dagli smartphones cominciamo ad averla, non resta che fermarci a ricordare quei tempi, in cui la maggior parte della gente non era scolarizzata ed aveva i figli all' estero eppure l' Istat non registrava né ansia e né rancore. Forse perché alle toppe delle porte si potevano lasciare le chiavi e il problema di uno era il problema di tutti. Quella era una società selettiva e rigorosa, ma ti faceva sentire protetto e rispettato. Quando arrivavo a Fresa trovavo a "lu murgione" compa' Emilio, zio Sebastiano, Adamo e altri, che salutandomi mi chiedevano di mio padre, perché se manca un pezzo della famiglia si vuole sapere come sta.
Fresa è come una famiglia, perché ha ancora senso comunitario e "fore a luarghe" è una comunità nella comunita. Vera non virtuale, fatta di rapporti a volte burrascosi, ma autentici. Infatti, stamattina nell' area dell' obitorio eravamo in tanti, di tutte le età, ma nessuno di noi stava col telefonino in mano: la realtà batte la virtualità, il rispetto batte la formalità. Compa' Emilio e quelli come lui non hanno avuto bisogno dei social per sentirsi dentro una comunità. Gli bastava uscire di casa e trovare un mondo... di affetti, valori e rispetto. Che hanno lasciato, per fortuna, anche ai loro eredi.
Ods