Sappiamo tutti che, Agilulfo, il cavaliere inesistente di calviniana memoria, è una lucida armatura vuota che compie atti prefissati come un robot. Già! Un paladino di Carlo Magno
che, come un furiere, svolge compiti ripetitivi che incarnano la macchina fordista. Da questo punto di vista, una metafora oggi obsoleta di quella modernità che già il postfordismo aveva relegato nel cantuccio di un vecchio armadietto sgangherato. Se si si vuole, una sorta di symbàllo greco che mette insieme due parti distinte. Un’armatura che combacia così bene con il corpo, al punto di stare al suo posto e di rappresentarlo. Non vi sono dubbi. La sua esistenza di simbolo è garantita. La qual cosa implica il seguente risultato: il corpo è sì inesistente, ma la traccia della sua presenza è certificata dalla corazza che lo riveste. In ogni caso, la domanda che mi pongo non è relativa a Agilulfo, personaggio letterario, ma è pertinente a una tale Scarafiocco Maria il cui caso clinico – che prevedeva il ricovero in manicomio – è documentato a Vasto, tra il 1885 e il 1886, dalle carte di archivio qui esistenti. Non avendo parenti, sono i vicini a fornire i primi dati sulla donna. «Si chiama Scarafiocco Maria», rispondono al primo quesito i residenti dell’area in cui vive. «Quanti anni ha? Da quanto tempo risiede in città?». «Non lo sappiamo», precisano le persone prossime alla casa ormai svuotata dall’inquilina. «Poco male» riferiscono a se stesse le guardie. «Andiamo a controllare all’anagrafe!». Giungendo all’ufficio comunale chiedono le prime notizie. Dopo aver controllato, l’ufficiale di stato civile dichiara: «Non risulta nulla a carico della donna. Né dimorante. Né residente». I vigili restano meravigliati e tornano a chiedere nuovamente ai vicini: «Sapete di dov’è?». «Di un paese che mi sembra si chiami ‘Ncarano o qualcosa del genere. Vedete voi» sottolinea un abitante del posto. Al comune la ricerca del luogo è febbrile. Bisogna definire la sua identità anagrafica. Senza questo dato fondamentale, la donna non può essere ricoverata. Ecco allora che qualcuno nell’ufficio grida: «Ho trovato! Ho trovato. Il comune è Ancarano. In provincia di Teramo». Immediatamente il sindaco di Vasto Francesco Ponza scrive al suo omologo del comune abruzzese. Il quale, a stretto giro di posta, risponde: «Negli atti di nascita non è registrata alcuna Scarafiocco Maria. Non risulta nemmeno negli atti di battesimo che da noi sono stati sostitutivi dello stato civile fino al 1852, anno in cui quest’ultimo viene istituito. Posso solo dire che da noi Scarafiocco, è un soprannome. Il soprannome della famiglia Marchetti. Ma non pare possibile riferirlo alla donna di cui si parla». Le ricerche continuano ancora per qualche tempo. Ma senza alcun risultato. Le informazioni finiscono qui. Non sappiamo più nulla dell’auspicato ricovero di Maria. Nemmeno del suo rinvenimento dell’identità civile. Niente di niente. Di Scarafiocco Maria rimane solo il nome. La qual cosa non decide solo della sua invisibilità. In effetti, a differenza di Agilulfo, la si può vedere in carne e ossa. Anzi i medici di Vasto possono osservarla, diagnosticandole la «demenza» dopo il suo temporaneo ricovero nelle carceri. Dal punto di vista clinico il protocollo è regolare. Tutto secondo le norme vigenti. C’è solo un piccolo problema: dal punto di vista civile e sociale la donna non esiste. E’ solo un corpo cui è perfino evaporata la mente, secondo le conclusioni degli illustri professori. In un’eventuale storia della donna, la vicenda di Maria Scarafiocco (che ho trasformata in un dialogo) è emblematica della procedura di esclusione. Volendo in qualche modo rinviare a quella «microfisica dei poteri» di cui parla Michel Foucault, la vicenda vastese sembra profilare in modo evidente l’episteme di cui è parte integrante il potere psichiatrico positivista –giocato in modo determinante nei cosiddetti «morotrofi» di Aversa e Nocera inferiore – che regola le pratiche di internamento. Insomma, ci si trova di fronte a un violento esercizio di biopotere, in cui l’«alienata», in assenza di una provata identità anagrafica, supera lo stesso internamento manicomiale per entrare in quello panoptico del carcere. Ho cercato di affrontare velocemente questo tema in un corso di aggiornamento docenti sulla didattica degli archivi che ho tenuto l’anno scorso per conto di “Italia Nostra del Vastese”. Devo dire che il risultato è stato proficuo se è vero che l’amica Clotilde Muzii – insieme con le colleghe Santangelo e Di Iorio – ha affrontato, con le alunne e gli alunni di tre classi, il tema della violenza di genere a partire dalla documentazione delle carte conservata nell’archivio storico comunale di Vasto. La mostra dal titolo Le invisibili organizzata presso la stessa sede dell’Archivio (casa Rossetti, dal 27 novembre al 20 dicembre) costituisce uno straordinario punto di incontro tra didattica e ricerca (grazie alla disponibilità di Renata D’Ardes, gelosa conservatrice delle antiche scritture vastesi). E che sia stato il Liceo in cui ho insegnato per tanti anni (il Polo liceale “Mattioli” di Vasto) a dare corpo a questa iniziativa non può che rendermi soddisfatto. Ciò favorisce l’acquisizione di un metodo di lavoro che, nei suoi neologismi, l’odierno “didattichese” chiama «didattica situata». Ma che di là dal nominalismo formativo può offrire la possibilità di attivare un altro percorso operativo finora confinato nel ripostiglio di quei buoni propositi che si trasformano spesso nel proprio contrario: vale a dire, la pratica dell’alternanza scuola/lavoro incentrata sulla ricerca (auspicabile in un liceo) guidata e certificata da un ente specifico. Mi chiedo: è possibile avviare una discussione che sia fautrice di attività propositive capaci di raccordare la specificità della scuola alla ricerca intesa come «lavoro dello storico»? Che sappia combinare l’analisi della singola antica carta con le esigenze quantitative offerte dalle nuove tecnologie? Da questo punto di vista, l’occasione viene data dalla mostra che il Polo liceale “Mattioli” di Vasto dedica alle invisibili nel contesto della Giornata internazionale per la sensibilizzazione sulla violenza di genere. Vogliamo cominciare a capire che alla base della conoscenza dei luoghi c’è il rapporto con l’archivio e con il museo insieme con le capacità di saper individuare un problema da risolvere nella situazione in cui ci si viene a trovare? Che di là da tutto, in questo gioco di incastri diventa meno difficile incontrare la serendipity, il risultato più affascinante di un’indagine che si basa sulla scoperta ottenuta dalla pura casualità? Un grande intellettuale napoletano del Settecento – Giuseppe Maria Galanti –, in uno dei capolavori della letteratura geopolitica dell’Illuminismo europeo, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie (1793), si lasciava andare alla seguente affermazione: «In Napoli si conosce forse più lo stato dell’isola di Otaiti che quello delle nostre province». Non è forse vero, che nell’epoca della globalizzazione, le sue osservazioni sono ancora più stringenti. E allora non è forse il caso di ritornare all’archivio della città? Non foss’altro che per mettere un po’ in riga tutti quegli improvvisatori che, senza aver visto un solo documento nella loro vita, parlano e riparlano di qualcosa che non conoscono: la storia.
Qui di seguito, la scheda nosologica della più antica base di ricovero per il manicomio di Aversa conservata nell’Archivio Storico Comunale di Vasto – 26 febbraio 1832 – relativa a un maschio ventiduenne, nato il 17 febbraio 1810.
Luigi Murolo