Tre noticine sul corso di fonetica storica
Le tre noticine che seguono le ho redatte per un dibattito avviato da alcuni corrispondenti sul mio profilo facebook. Delineano in qualche modo le ragioni culturali che stanno alla base del mio corso di fonetica storica organizzato dalla Pro Loco di Vasto,
Italia Nostra del Vastese con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura. Che devo dire! Una discussione molto articolata – aggiungo – che mi auguro possa continuare.
1.Come tutti sanno, non c’è alcuna relazione tra lingua letteraria, fonetica, fonetica storica. Io mi occupo solo di quest’ultima. Conosco la prima (ma solo tardo-ottocentesca e primo-novecentesca) solo per ragioni di documentazione diacronica sulle tipologie di scrittura fonetica e per il rapporto storico-antropologico che viene a delinearsi tra scrittura e oralità. Parlo solo di questi aspetti. Che sia chiaro: la parte cosiddetta “artistica” (soprattutto se contemporanea) è totalmente fuori da siffatti interessi.
Ribadisco il concetto. Mi occupo solo di storia della lingua. Lascio la letteratura agli storici del settore e ai critici letterari. Da ciò, ognuno può trarre le conseguenze che ritiene utili.
2.L’Alfabeto Fonetico Internazionale (AFI può essere utilizzato nella storia della lingua (nel caso specifico del dialetto) a una condizione: che sia identificabile l’evoluzione fonetica . Se io devo limitarmi alla semplice trascrizione dei foni enunciati dagli attuali locutori, posso tranquillamente scrivere la parola nuvola in questo modo: [‘nivl]. Se devo, però, indicare graficamente la storia della parola, il paradigma cambia radicalmente. Mi spiego. In un solo atto devo precisare che il lemma dialettale [‘nivl] derivi dal proparossitono latino nŭbilu(m). Che in sillaba aperta, l’ictus breve sulla ŭ, in dialetto si trasformi in í . Che si affermi il mutamento consonatico b > v. Che, sul piano prosodico, per mantenere la struttura sdrucciola latina della desinenza in – um accusativo devo utilizzare per forza la e muta ǝ. Che per tutte queste ragioni, il proparossitono latino nŭbilu(m) diventa in dialetto lo sdrucciolo [‘nívǝlǝ]. Per spiegare questo passaggio devo ricorrere a due segni non contemplati nell’AFI: í, ǝ. Da questo punto di vista, l’AFI esige delle aggiunte. Nel dialetto vastese, ad esempio, esistono quattro foni di a che devono essere necessariamente diversificati. Ecco perché devo ricorrere alla fonetica storica e caratterizzarli in questo modo: a, ä, å, ã. Come si può capire, in questo senso l’AFI è insufficiente. Spero di aver chiarito il problema.
3.Per quanto mi riguarda, il corso di fonetica storica (ribadisco, fonetica) che ho iniziato giovedì ha un solo scopo: cercare di capire i modi in cui i locutori della comunità, “nel corso del tempo”, hanno consegnato al lessico da loro parlato la memoria della città. Nel mio ultimo volumetto, ad esempio (Lessico perduto), ho cercato di sottolineare in un capitoletto come il diritto langobardo sopravviva nel dialetto vastese nel termine [mun’daṷnǝ] con il lemma giuridico mundualdo utilizzato dal notariato locale dei secc. XVI-XVIII per garantire la trasmissione maschile della patrimonialità ereditata dalla donna vedova o nubile. Per intenderci, uso la fonetica storica per cogliere l’aspetto antropologico della [‘lenga] locale. Va da sé che, in tale contesto, la fonetica storica assume un valore sostanziale. Tutto ciò che estraneo a tale interesse è collaterale, o al più esemplificativo. Ciò non vuol dire che io mi sottragga ai quesiti da posti. Anzi!
Bene. Come si può notare ho utilizzato la parentesi quadra della fonetica e non la barra della fonematica. Ciò vuol dire che sto parlando esclusivamente di foni, non di fonemi. Parlo di connotazione grafica dei quattro suoni della [a]: [a, å, ä, ã]. Da questo punto di vista non mi interessa affatto sapere che sono due i fonemi: la /å/ opposta al fonema /ọ/ oppure la /a/ variamente opposta ai fonemi /ȩ/, /ę/, /å/. Peraltro, mi sono divertito a identificarli. Ma ciò non ha alcun rilievo per i temi che affronto. Faccio presente che i grafemi fonetici da me usati e non presenti nell’AFI fanno parte della trascrizione fonetica della grande tradizione italiana di Graziadio Isaia Ascoli o di quella tedesca di Gerhard Rohlfs e della sua monumentale Grammatica storica della lingua e dei suoi dialetti. Aggiungo, tra l’altro, che gli studi sul campo di Rohlfs sul lavoro dei contadini nell’Italia meridionale durante gli anni Venti del Novecento hanno in Palmoli un riferimento fondamentale. Rispetto a questa località del Vastese, la recente pubblicazione (2014) del volume Gli Abruzzi dei contadini 1923-1930 costituisce un contributo inestimabile alla riflessione complessiva sul rapporto antropologia/fonetica storica.
Antropologia che, in ambito vastese, agli inizi del Settecento, troviamo nella lingua basso-mimetica del chierico Diego Maciano che, ad esempio, scrive un dialettale seggia derivato da un antico siēda(m) successivamente trasformato in [‘setǝ], sedia, oppure nell’uso di “Uiua” o “Uenne” (viva, venne), termini che in ambiente dialettale tardoseicentesco indicano ancora l’uso latino della vocale velare – u – prima della sua trasformazione nella labiodentale – v -. Questi sono gli aspetti che mi interessano. Che, in buona sostanza, costituiscono il punto di vista su cui ho impostato il mio piccolo corso di fonetica storica.
Luigi Murolo