Da molti mesi seguiamo la vicenda della legge sullo Ius Soli, sperando che dopo l'avvenuta approvazione alla Camera dei Deputati, ci sia un esito positivo anche al Senato. Ma le modalità di questo passaggio sono ancora da stabilire. Nel suo intervento a Vasto,
l'onorevole Paolo Beni ha dato quasi per certo che se alla fine la legge vedrà la luce sarà solo grazie alla fiducia. L'opposizione che si riscontra in una certa fascia della popolazione è molto aspra, il varo della legge porterebbe certo una flessione dei consensi, ma la questione è troppo importante per lasciarsi intimorire: è in gioco una scommessa per il futuro.
Innanzi tutto bisogna evitare la confusione: i detrattori tendono a mischiare la questione della cittadinanza con quella dell'immigrazione, come se bastasse semplicemente approdare in territorio italiano e mettere al mondo un figlio perché questi sia automaticamente italiano. In realtà i bambini nati in Italia da genitori stranieri possono acquisire la cittadinanza italiana solo se uno dei genitori è titolare di diritto di soggiorno illimitato oppure di permesso di soggiorno dell’Unione Europea per soggiornanti di lungo periodo.
Per quanto riguarda invece i minori stranieri nati nel nostro Paese o arrivati entro i 12 anni di età, esse possono diventare italiani con il cosiddetto ius culturae dimostrando di aver frequentato regolarmente almeno 5 anni di percorso formativo. Quindi si tratta di un provvedimento estremamente "temperato" a cui si è giunti dopo anni di estenuanti trattative.
Durante il dibattito a Palazzo D'Avalos, un contributo davvero importante è arrivato da Hamid Hamdi, marocchino residente da molti anni in Italia che ci ha parlato della diretta esperienza dei suoi figli, che pur vivendo nel nostro Paese gomito a gomito coi nostri ragazzi si trovano nella condizione spiacevole di essere stranieri sempre, mai completamente integrati, mai del tutto a casa.
Dice Hamid che il problema non riguarda tanto i bambini delle elementari: dei loro permessi di soggiorno si occupano i genitori senza che loro ne sappiano niente e vivono sereni senza grandi domande. Il problema comincia alle medie, con l'arrivo dell'adolescenza, quando vengono a conoscenza dei complicati meccanismi che li separano dal sentirsi veramente italiani.
Le radici delle famiglie dei ragazzi di questa generazione sono state parzialmente recise nel momento della migrazione, molti di essi faranno solo rare visite al Paese di origine. La realtà che vivono è molto diversa da quella dei genitori, mentre acquisiscono stili di vita propri dei loro coetanei, a scuola, nello sport, con gli amici. Ma le radici nuove tardano formarsi: il loro Paese di origine non gli appartiene più e la terra dove vivono non li accoglie veramente fino in fondo, non gli dà quel titolo -italiano- che farebbe di loro dei non più stranieri. Questa situazione paradossale è un forte ostacolo alla formazione dell'identità personale, la definizione dell'Io subisce un ritardo forzato e innaturale.
"Chi sono io?" è la domanda che si pone ogni adolescente e che già in quelli più inseriti socialmente crea qualche turbamento. La situazione dei figli di stranieri è gravata da un'ulteriore frustrazione e cioè quella di non poter asserire con certezza di appartenere ad un luogo. Un luogo che essi abitano, vivono, costruiscono giorno per giorno, ma che tuttavia non possono chiamare casa e che si ostina a volerli stranieri. ("Quella vita che gli altri ci respingono indietro/Come un insulto/Come un ragno nella stanza." Claudio Lolli "Ho visto anche degli zingari felici")
Ma se non è qui la loro casa, se non dove hanno passato tutti i giorni che hanno conosciuto, allora dove?
Chi vogliamo vicino a noi? Amici che abbiamo accolto dandogli dignità e fiducia o estranei che tolleriamo a malapena e con cui non riusciamo ad avere un dialogo? Persone risolte e integrate che trovino il loro posto nel mondo o disadattati che faticano a veder in noi il prossimo da rispettare?
La legge dello Ius Soli, quindi è una legge per tutti, perché crea quella connessione per coi riconoscendoci l'un l'altro preveniamo l'isolamento, la frammentazione, che fanno la disperazione dell'individuo fino a portarlo all'emarginazione e alla violenza verso una società che non lo riconosce e lo vive come un corpo estraneo, un peso.
Abbiamo l'obbligo di riconoscere i bambini e i ragazzi che sono tra noi e sono nati vicino a noi, perché siano degli adulti sani e consapevoli, con radici forti; perché vogliamo che siano una risorsa e non un problema. Solo così non saranno più stranieri, saranno davvero integrati e si sentiranno parte di un popolo.
Silvia Di Virgilio