E se la TV non fosse sempre “cattiva maestra”?
"Una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione, o più precisamente non può esistere a lungo fino a quando il potere della televisione non sarà pienamente scoperto” scrisse (Karl R. Popper in Cattiva maestra televisione). Un classico che ha suscitato
un dibattito inesauribile e oggi è più che mai attuale. Anche ai tempi del CORONA-VIRUS. Oggi voglio accompagnarvi nella scoperta del potere della televisione. Dagli archivi di “Ultima voce” andiamo alla scoperta della esperienza di “Non è mai troppo tardi.”
Nel 1959 Alberto Manzi iniziò a condurre il programma “Non è mai troppo tardi” con la RAI. Lo scopo era quello di insegnare l’italiano a una classe virtuale, composta per lo più da adulti, in un periodo in cui il tasso di analfabetismo era altissimo. Le puntate andarono in onda per quasi un decennio durante il tardo pomeriggio. Venivano utilizzati pochi e semplici oggetti: una lavagna luminosa e un grosso blocco di carta montato su un cavalletto, sul quale il maestro scriveva con un carboncino. A supporto delle lezioni televisive, la casa editrice della RAI (ERI) pubblicava materiale ausiliario come ad esempio quaderni e brevi libri di testo.
Si è calcolato che il programma abbia permesso il conseguimento della licenza elementare a quasi un milione e mezzo di persone. Proprio per questo nel 1961 l’UNESCO lo considerò uno dei programmi meglio riusciti per diffondere l’alfabetizzazione e nel 1965 “Non è mai troppo tardi” vinse il premio internazionale a Tokyo come migliore trasmissione che aveva contribuito alla lotta contro l’analfabetismo. Il successo fu grandioso e diversi Paesi ne acquistarono i diritti prendendone lo stile e il metodo per adattarlo alla loro realtà.
Si racconta che Manzi durante il provino per il programma rifiutò di leggere il copione, lo strappò e improvvisò la lezione a modo suo. I rapporti con la RAI infatti non furono sempre dei migliori. Come scrisse lo stesso Alberto Manzi, alla metà degli anni Sessanta la RAI si trasformò in una complessa struttura burocratica con numerosi dipendenti, in cui ognuno voleva dimostrare di fare qualcosa. Perciò gli chiesero di scrivere le lezioni in modo che potessero essere controllate, ma lui rispose: “Posso anche scrivere la lezione, voi l’approvate, ma poi io faccio come mi pare, vado a ruota libera “. Allora gli chiesero di registrare le puntate, ma rifiutò per non rinunciare alla sua spontaneità. Questa fu una delle cause della chiusura del programma, ma non l’unica. Annotazione: il maestro Manzi non venne mai pagato dalla RAI e continuò a percepire il suo stipendio di maestro elementare. Gli unici soldi percepiti dalla RAI erano duemila lire a trasmissione per il “rimborso camicia” che servivano a comprare delle camicie nuove, visto che molte si rovinavano a causa del gessetto nero usato per fare i disegni. Alberto Manzi tornò a far parlare di sé nel 1981, quando si rifiutò di redigere le “schede di valutazione”, appena introdotte dalla riforma della scuola in sostituzione della pagella. La spiegazione del suo rifiuto fu semplice:
Non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia, è in movimento; se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest’anno, l’abbiamo bollato per i prossimi anni.
Il Ministero della Pubblica Istruzione però non apprezzò il suo ragionamento e venne sospeso dall’insegnamento e dallo stipendio. Proprio lui che aveva reso possibile l’alfabetizzazione dell’Italia. E ci sarebbe tanto altro.. E veniamo ai tempi del CoronaVirus.
Tra le vittime del coronavirus c’è la scuola: e il diritto all’istruzione, per molti. La chiusura delle scuole non incide su tutti allo stesso modo. Intanto, perché non tutte le scuole si sono attivate, o hanno reagito a livelli sufficienti. Ci sono istituti che hanno risposto immediatamente e con professionalità, altri molto meno, o solo alcuni insegnanti, o alcune classi, con differenze enormi anche all’interno della stessa scuola.
Tutto, o comunque troppo, è basato sulla buona volontà e l’autonoma capacità di insegnanti e dirigenti scolastici, che non è presente in maniera ugualitaria o almeno decentemente bilanciata: chi è capace si attiva, chi non è capace resta al palo (e, peraltro, in termini di strumentazione e di connessione, tutto è a carico dei docenti).
Questo sul lato dell’emittente, per così dire. Sul lato del ricevente le cose stanno ancora peggio. C’è chi proviene da famiglie ricche di stimoli culturali, con libri in casa, e la capacità di seguire e pungolare i figli nelle loro attività didattiche. Chi invece non ha questa possibilità, o ha problemi materiali, peraltro diffusi. Non tutti hanno il pc in casa, o ne hanno uno solo anche per i genitori che lo usano per lavoro, comunicazioni con i parenti, acquisti online, informazione su quel che succede. O abitano in zone – molte – dove la connessione è scadente (e qui paghiamo la mancanza di investimenti in infrastrutture digitali). O non hanno il Wi-Fi in casa. O hanno abbonamenti telefonici che a loro volta hanno un costo che non tutti si possono permettere.
Queste disuguaglianze peseranno sul futuro degli studenti. Alla fine, si sarà generosi nelle promozioni (lo si è già detto anticipatamente– sbagliando clamorosamente pedagogia: di fatto incoraggiando chi non lavora), ma molti finiranno l’anno scolastico con buchi enormi sui programmi, che si pagheranno negli anni successivi, soprattutto per chi passa da un livello scolastico all’altro (dalle elementari alle medie, o dalle medie alle superiori). L’offerta organizzata centralmente dal ministero dell’istruzione è colpevolmente modesta. Se si va sulla pagina istituzionale si trova qualcosa, ma non abbastanza: alcune esperienze attivate sul territorio, le piattaforme utilizzabili, i link ai contenuti di istituzioni importanti come la Treccani o la RAI (Raiplay ha molti materiali preziosi, ma non delle vere lezioni). I TG fanno riferimento alle pagine YOU TUBE di questo o quel docente particolarmente smart. Ma è sufficiente? La risposta è ovviamente un secco no: insegnanti e studenti si meritano di più, e ne hanno diritto.
L’unico strumento veramente a disposizione di (quasi) tutti è la TV. Forse occorrerebbe mobilitarla, «sequestrandone», per così dire, almeno un paio di canali generalisti almeno la mattina (ci si accorgerebbe che non è una gran perdita: non se ne può più di meta dibattiti su questa o quella dichiarazione, ripetitivi e ansiogeni), oltre a quelli specialistici, come RAI Cultura: facendone, provvisoriamente, dei contenitori di lezioni a ciclo continuo, almeno per la scuola dell’obbligo. Poi, chi ha di meglio, magari la propria scuola attiva e reattiva, bene. Ma per quelli che non hanno tutto questo potrebbe essere uno strumento prezioso e non particolarmente costoso. Non limitandosi a pescare dal repertorio inventando giorno per giorno programmi attualizzati, legando in percorsi originali lezioni preparate ex novo e materiale d’archivio come documentari e cartoni animati educativi. A rischio di improvvisare un po’, o di appoggiarsi alle esperienze di base già attivate da qualche docente più tecnologicamente preparato, o avendo l’umiltà di tradurre quanto di buono hanno TV con una tradizione educativa molto lunga, come la BBC. L’hanno fatto paesi più piccoli e con meno risorse del nostro. Perché noi no?
Servono davvero di più, oggi, le reti ammiraglie, così come sono? Si potrebbe così costituire un deposito di materiali utili anche per il futuro. E sarebbe oltre tutto un segnale molto forte che ci si attiva, e che davvero non si vuole lasciare indietro nessuno. L’hashtag #la scuola non si ferma (come quello #andrà tutto bene e altri che stiamo partorendo in questi giorni) sarà anche suggestivo e consolatorio, ma non è risolutivo.
Nicola Dario