Alzi la mano chi non conosce Cesare Irace, ciclista di razza, idolo dell’Abruzzo e del Molise. Nacque da una famiglia di contadini nella zona di San Biase confinante con il territorio salvanese. Cesare, ultimo di nove figli, perse uno dopo l’altro, sei fratelli. Della numerosa “nidiata”restarono
in vita Cesare e due sorelle. Visse a contatto con la natura, accudendo le mucche. Trascorreva il tempo a piazzare le trappole per lepri, tassi e fagiani. Diede la caccia anche ai serpenti, che si attorcigliava sul collo. Mentre rincorreva una talpa, inciampò ad un ordigno di guerra, che deflagrò. Rimase due giorni sotto terra, ma poi riuscì a uscire. Un giorno di maggio all’improvviso vide passare i corridori del Giro d'Italia. Restò impietrito. Da allora nacque in lui la passione per le due ruote. La famiglia non navigava nell’oro. Il padre fu costretto a vendere il cavallo al primo offerente; nascose il denaro sotto il materasso. Cesare entrò di soppiatto nella stanza del “tesoro”, prelevò quarantamila lire ed acquistò una bicicletta da corsa al negozio di Confucio Ciavatta. Il padre, appena scoprì il misfatto, afferrò un bastone e si mise a ricercare il “lestofante”. Cesare per una quindicina di giorni visse nascosto tra gli alberi. La mamma, però, di nascosto, lo rifocillò con pane e ventricina. Passata la tempesta, Cesare cominciò ad allenarsi. Prometteva abbastanza bene. Firmò il primo contratto con un club pescarese. Mentre al comando del gruppo percorreva un tratto di discesa, precipitò in un fosso, riportando una grossa frattura alla testa e la perdita della memoria. Il padre fece celebrare perfino la messa funebre. Cesare, dopo ventidue giorni, superò il coma e tornò a casa in sella alla sua bicicletta, con una vistosa garza che nascondeva trenta punti di sutura. Ritornò alle gare. In un bar del suo paese apprese che a Bari si disputava una gara importante. Sotto una pioggia violenta, giunse a Bari bagnato come un pulcino. Si classificò primo. In un momento di forte crisi, decise di abbandonare il ciclismo. Emigrò a Portocivitanova, dedicandosi al pugilato. Vinse cinque incontri per k.o. Diventò il secondo allenatore del pugile salvanese Nicola Nanni. Passò al podismo. A Bergamo arrivò primo con otto minuti di vantaggio rispetto al secondo. Ritornò a casa dei genitori. S’innamorò di Maria, una bellissima quindicenne di Fresagrandinaria. Dopo un mese di fidanzamento si sposarono. La moglie a poca distanza di tempo dette alla luce: Toni Loris, Paride Maciste e Gianni Ben Hur. Per sbarcare il lunario si mise a lavorare. La lunga assenza dalle competizioni lo resero scontroso. Per “smaltire” la grave depressione, cominciò a mangiare e “bere”smoderatamente. Dopo una rigorosa dieta, riacquistò una buona forma fisica e tornò al ciclismo. A Santa Croce di Magliano, mentre era al comando del gruppo, si sentì debole. Scivolò, battendo la testa sull’asfalto. Venne trasportato all’ospedale di Vasto. Dopo una ventina di giorni, cominciò a muoversi. Restò tre mesi nell’ospedale. “Fai dire una messa a San Matteo ” gli sussurrò all’orecchio il primario del reparto. Continuò a gareggiare. Cesare, oggi ottantenne, non ha ancora appeso la bicicletta al chiodo.
Michele Molino