Luigi Di Stefano, salvanese, rispettoso e gentile con tutti, è volato da un bel po’ di tempo in cielo. Ecco un piccolo frammento di ciò che gli è successo nei due anni di prigionia in un campo di concentramento della Germania nazista. Luigi fu catturato dai soldati tedeschi all’inizio di settembre del 1943, che lo costrinsero ad entrare con altri prigionieri in un vagone-merci, verso ignota destinazione.
Un foro nel pavimento serviva per i bisogni fisiologici. Non si respirava per l’olezzo nauseabondo. A “pranzo”, un mestolo al giorno di un intruglio giallo era tutto quello che poteva passare il convento. All’ottavo giorno venne fatto scendere in un luogo imprecisato, che includeva una serie di campi di concentramento. Il freddo penetrava fin dentro le viscere. Luigi dopo un anno e mezzo di lavoro forzato, a causa della malnutrizione, si ammalò gravemente. Appena ristabilitosi un po’, fu di nuovo costretto al lavoro forzato in una fabbrica di aeroplani a Neumünster (Germania). Un giorno mentre “pranzava” con due patate lesse e una mela marcia, si soffermò a pensare; a quel punto, un soldato tedesco lo colpì con una gragnola di calci e pugni. Svenne e precipitò a terra. Rialzatosi in piedi, un soldato l’afferrò per i capelli e gli fece mangiare la mela marcia compresa di buccia e semi. Dopo un po’ di giorni fu inviato a lavorare nei campi di una famiglia di contadini, sotto la sorveglianza della gendarmeria tedesca. Cominciava a caricare le barbabietole sui carretti all’inizio dell’alba e terminava dopo 17 ore di lavoro. Infatti si ammalò di nuovo. Era ridotto ad una larva umana, purtroppo doveva resistere per non essere pestato. Il 2 settembre 1945 la guerra mondiale ebbe (finalmente) termine. Luigi attraversò a piedi buona parte della Germania e quasi tutto lo Stivale italiano. Dopo due mesi vide la croce che svettava sulla torre campanaria della chiesa di San Salvo. Percorse via Roma, passò sotto la Pòrt de la Tèrr, entrò in chiesa, s’inginocchiò davanti alla statua di San Vitale e cominciò a pregare. Nell’aria si sentiva un effluvio di peperoni fritti, lo scalpitìo dei cavalli e lo strepito dei carri carichi di letame. Con le gambe vacillanti, il viso coperto da una folta barba, scalzo, sporco, con il cuore che batteva all’impazzata corse verso casa. Bussò, urlando a squarciagola:“Ginesia, so jè, Luègg!”. La donna balzò dal letto e andò di corsa ad aprire. Luigi strinse forte tra le sue braccia la moglie , la baciò e scoppiò in un irrefrenabile pianto.
Michele Molino