“CAMMINI” E PRODOTTO TOPICOCon «camminare» s’intende “l’andare da luogo a luogo con le gambe” (si noti bene, con le gambe non con i piedi). Da questo punto di vista, l’etimologia del sostantivo
«cammino» implica un percorso dedicato a un movimento verso una meta prodotto da trazione umana o animale (ivi compreso il traino di carri). A partire dal VII sec. – quando il termine comincia a essere documentato – ci si riferisce esclusivamente a tale nozione. Con un’aggiunta necessaria. Che al cammino non interessa il percorso, ma la meta. In tale prospettiva, è l’obiettivo che definisce la denominazione specifica del viaggiatore. Leggiamo che cosa scrive Dante sul tema delle peregrinationes maiores:
[…] ché peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno stretto: in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori de la sua patria; in modo stretto non s’intende peregrino se non chi va verso la casa di Sa’ Jacopo o riede. E però è da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de l’Altissimo: chiamansi palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepoltura di Sa’ Iacopo fue più lontana della sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno a Roma […]. (Dante, Vita Nuova, XL, 14-21)
Genericamente, dunque, sono tutti peregrini, vale a dire “stranieri” (da lat. per, ‘di là’, e ager, ‘territorio’). Ma per conoscerne la connotazione, il vero peregrinus, lo straniero per eccellenza – il peregrinus Dei, lo ‘straniero di Dio’ –, è colui che si reca a S. Giacomo di Galizia, posto verso la finis terrae, alla fine del mondo cognito. In tal senso, chi va a Roma è romeo; chi a Gerusalemme è palmiere.
Pannello lapideo con teoria di romei in altorilievo vestiti con pellegrina, bisaccia, bordone. Visibile la centralità della trazione con le gambe. Fidenza, Duomo (1180 ca.)
S. Giacomo a cavallo che porta con sé due pellegrini. Miniatura
Palmieri al S. Sepolcro con tunica e pellegrina bianca con bordone mentre pagano il dazio a esattori musulmani per l’accesso ai luoghi sacri della cristiamità.
A questa rigorosa classificazione dantesca se ne contrappone oggi una molto più elastica e leggera. Non è più il mezzo a qualificare il viaggio, ma la sua lentezza. E ciò che conta non è più il raggiungimento della meta, ma il percorso in tutte le sue tappe. Che cosa significa tutto questo? Molto semplice. Che si può abbandonare il cammino in ogni momento. Che lo si può lasciare e riprendere in ogni dove. Che c’è uguaglianza tra meta e origine. Che tutte le stationes del tragitto delineano uno spazio del “vissuto’, non quello razionale e misurabile della mappa. Si torna alla cosiddetta odologia di John Brinckerhoff Jackson, teorico del paesaggio, che aveva mutuato dalla psicologia sperimentale di Kurt Lewin il concetto di “spazio vissuto” oppure alle song lines di Bruce Chatwin che, nel loro dispiegarsi, riescono a discoprire il pensiero sottostante alle forme organizzate del territorio (che non è dissimile dal pensiero dietro al movimento delle cose di cui parla Deleuze). Non vi sono dubbi. Il viaggiatore contemporaneo assume il cammino come pratica estetica (ciò che Kant chiamava giudizio riflettente). Da questo punto di pista, il percorso – che nella sua realtà effettuale – è sempre ex post, non indica solo il tragitto compiuto, ma la stessa struttura narrativa in essa racchiusa che è, di fatto, la propria song line.
Ma c’è di più. La laicizzazione odierna del cammino esclude la figura medievale del peregrinus, dello straniero alla ricerca della reliquia. La sua fenomenologia è intrisa della partecipazione al singolo luogo, di un’attiva presenza, non certo di alienazione.
Il movimento del prodotto topico, ad esempio, è un cammino che si declina all’interno del paradigma qui enunciato. Il concetto di topos è connesso con ciò che afferma Brillat-Savarin nella sua Fisiologia del gusto (1825): «la gastronomia è la conoscenza ragionata dei luoghi […]». Il che vuol dire che, come forma fenomenica, la gastronomia è ciò che riesce a combinare in un unico piatto i sapori specifici dei prodotti di quel luogo e che, solo in quel piatto, consente di trovare storicamente la sua massima espressione. E che per far ciò occorre conoscere suoli, microclimi, aspetti meteorici, habitat di un determinato ambiente dove gli stessi prodotti “vivono”. Tipico è il modo, l’uso con cui una pietanza viene attuata. Topico, al contrario, è il prodotto che la compone. Non c’è alcun progetto precostituito di tour nel movimento del prodotto topico. Il cammino che si compie è l’effetto di incontri, talora casuali, che si determinano nel corso dell’azione organizzativa. Questa procedura esclude in modo radicale la figura del peregrinus, dello straniero. Al contrario, presuppone una presenza decisa del soggetto.
Questo détournement (volendo mutuare un termine del lessico situazionista), che vuol dire una continua deviazione da un presunto percorso prestabilito, sembra produrre un apparente disorientamento. Ma come – potrebbe dire qualcuno – tra Roccasicura e Carovilli c’è una distanza di appena una decina di chilometri. Per quale motivi non c’è continuità di visita tra due comuni in giorni diversi, ma si va prima a Benevento e poi nelle Marche, a Acquaviva Picena? E qui che subentra la forza del détournement. Nei fatti, la pratica della discontinuità mette il partecipante di fronte a sistematiche aperture mentali verso diversi e inattesi aspetti della realtà. Anzi, molte volte ci si sofferma sostando di notte. Che lo si voglia o meno, con il movimento del prodotto topico si produce una sorta di training sensoriale in cui le esperienze determinate in discontinuità hanno la grande possibilità di profilare una limpida consapevolezza plurale e complessa delle cose.
Diciamola tutta. In questo modo ognuno può assemblare come vuole i pezzi del mosaico delineato e ricostruirli nel proprio vissuto. Il che vuol dire, postosi fuori dalla logica dell’itinerario turistico (che, di solito, è veloce e omogeneo), il prodotto topico cerca di promuovere e non è cosa semplice, la “conoscenza ragionata dei luoghi”.
Ah, come la definiva quel vecchio giurista di età napoleonica chiamato Jean Anthelme Brillat-Savarin divenuto in seguito fisiologo del gusto? Lo si è già detto: gastronomia.
Luigi Murolo