Un professore dalle forti radici
Caro Zio, i miei ricordi di Te e su di Te partono ovviamente da quando ho cominciato a comprendere e sentire: quando avevo cinque - sei anni e tu ne avevi trentadue. Allora a Fresa si poteva giocare liberamente per strada e mi capitava di incontrare
più di qualcuno, che mi chiedeva: “Dov’è il Professore ? Non esce ?” Tu, dunque, eri il Professore. Non mi sorprendeva che Ti chiamassero così: lo eri. Ma mi incuriosiva e quasi incantava il modo con cui i nostri compaesani pronunciavano il termine “Professore”, riferendosi a Te. Lo dicevano, ed avrebbero continuato a dirlo anche dopo di quel tempo ormai lontano, non con distacco e né tantomeno con invidia. Lo dicevano con compiacimento. Anzi, per dirla tutta, Ti appellavano con orgoglio, perché Tu, uno di loro, un figlio di povera gente, eri riuscito ad arrivare fino alla laurea, che Ti avrebbe portato ad insegnare, prima, ed a dirigere una scuola, poi. Quello era evidentemente considerato un punto di arrivo collettivo, prima che individuale, perché il figlio di un galantuomo (che per campare onestamente moglie e quattro figli aveva fatto il cantiniere, il ciabattino, il bandista ed ovviamente il contadino) aveva preso la laurea, la quale, dunque, diventava la meta di una famiglia-comunità e di una comunità-famiglia, che si emancipava ed affrancava dalla miseria culturale prima che economica.
Forse proprio per questo, Tu non sei mai stato un Professore qualunque. Sei stato e sempre sarai il Professore, umile e radicato alle proprie origini, che non avrebbe mai abbandonato o rinnegato. Anzi, a cui si era ancor più legato ed a cui aveva legato la sua sposa (tanto professoressa quanto umile ed educata) e i suoi tre figli, che ogni Natale, ogni Pasqua e ogni estate venivano a Fresa e diventavano tre bambini fresani, tre ragazzi fresani, tre figli di Fresa.
Figli di Fresa, di un figlio di Fresa, capace di portare mezza Rai in una sagra della Porchetta, forse antesignana del mio Prodotto topico, il cui manifesto solo qualche mese fa trovai affisso al museo del nostro paese, che ovviamente mi riempi di orgoglio e che subito inviai a colui che con me condivide il nome del tuo diletto Padre. E ci ricordammo di quando organizzavi quegli eventi, che animavano la piccola comunità, la quale, quando non da Te, era parimenti animata dai goal di Tuo fratello, Valentino, altro orgoglio della nostra famiglia a Fresa.
Una famiglia plasmata dalla serietà del suo capostipite, di cui tanti mi dicevano, sentendo il mio nome e cognome: "Ah, sei suo nipote ? Che galantuomo che è stato tuo nonno". Caro Zio, la capacità linguistica, didattica, di studio e di scrittura l' hai appresa a scuola, ma la serietà e l' immagine, quella no, quella l’ hai appresa da nonno, che l’ ha trasferita a Voi, suoi figli, e Voi l’ avete trasferita a noi e noi la trasferiamo ai nostri figli, Vostri nipoti.
Si tratta della serietà e della immagine tipiche della società contadina, quella dove le difficoltà della vita si superano col lavoro e col rispetto. Quella che Tuo cugino, don Tommaso, ha definito nell’ omelia per nonna il senso delle cose, che poi è stata la Tua antropologia, la quale Ti ha consentito di scrivere i Pensieri sparsi, che ora è nostro dovere pubblicare.
Il senso delle cose di Pensieri sparsi è la stessa antropologia, per mezzo della quale sei entrato subito in empatia con un vero antropologo, Emiliano Giancristofaro, nel viaggio a New York, che facemmo assieme e che Ti ha consentito di leggere e presentare quel suo tomo con estrema facilità. Durante quella presentazione ci parlasti dei ritorni a Fresa e di quel poetico e dolce, “Evari sir miniut? E cand sir miniut ?” Una domanda ricorrente ed affettuosa, che la comunità fa ad una parte di essa che si vuole ricomporre in una sorta di omeostasi sociale.
Evaristo, Gabriele o Professore, comunque Tu venissi chiamato, sei stato e sarai sempre un figlio amato di una terra avara, che ha comunque saputo generare uomini dinamici, creativi, studiosi, rispettosi e rispettati, grazie ai quali questa nostra terra ora è più generosa. Che la terra di Ferrara ti sia lieve, Caro Zio. Ci mancherai.
Orazio