La Storia di Nicola Dario

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Non è una vera e propria “Storia della Domenica” ma una riflessione

Una delle conseguenze immediate di questo epocale virus è che rende apparentemente impossibile parlare d’altro. Che poi non è solo il distanziamento sociale, lo stare chiusi in casa più o meno da soli. Il problema sono le parole. Questo virus ci costringe a stare distanti e ci obbliga pure a parlare esclusivamente di lui. Assomiglia a quei convitati

esibizionisti e rompicoglioni che durante una cena finiscono per diventare l’unico argomento di conversazione. Ci chiudiamo in casa per non ammalarci e non appena incontriamo l’altro nelle forme omeopatiche che ancora ci sono concesse, in un attimo si contagiano i discorsi. Siamo sempre lì.

Distanziamento “sociale“ è qualcosa cui noi, protesi come siamo sul Mediterraneo e abituati come siamo a situazioni oltremodo affollate, non siamo molto abituati. Certo, “c’è quel tuo amico sociopatico che non tocca nessuno da anni, c’è tua cugina ipocondriaca che da sempre viaggia con il disinfettante in borsa, c’è l’amica dell’amica che è talmente antipatica che si tiene a debita distanza da qualsiasi organismo vivente, ma sono casi sporadici e non la norma. Insomma, a noi italiani il contatto fisico ci piace e se pure ci piace poco ne abbiamo comunque una gran confidenza. Eppure ”distanziamento sociale“ è una parola che di questi tempi val bene imparare.

Persino quando un media propone un diversivo, quale un suggerimento letterario o la visione di un film, è d’obbligo premettere che si tratta di un modo per trascorrere la quarantena. Chi parla d’altro è tenuto a giustificarsi. Se ci si trova impegnati in un’attività differente, come fare la spesa o prelevare dei soldi in banca, è inevitabile che la transazione sia accompagnata dai commenti sulla situazione epidemica: al tempo stesso la scenografia e le pratiche dell’igienizzazione e del distanziamento coprono ogni spazio di silenzio parlando loro stesse del virus.

Diversi argomenti sono venuti meno: non ci sono spettacoli o eventi sportivi da commentare né ristoranti e luoghi ameni da raccomandare; se non siete un medico, un infermiere o la cassiera di un supermercato non ci sono episodi di lavoro da raccontare; i malesseri del mondo e le sue bellezze se ne stanno quiescenti, in attesa di tornare a tirarci cazzotti in faccia o rapirci l’animo. Non si parla di prospettive, perché in assenza di un limite temporale definito e di una chiara progettualità politica sarebbe vano farlo.

Ho la sensazione che ci riescano qualche volta i ragazzi, quando si collegano in rete; oltre tutto siccome l’attività didattica in qualche forma procede hanno da parlare di quella, e degli esami. Ovviamente ci sono le riunioni di lavoro in smartworking. Anche se, come è stato scritto, lo smartworking  non significa tradurre le riunioni in videocall; significa innestare versatilità organizzativa nelle stesse mansioni lavorative, riorganizzate non per quantità ma per qualità e obiettivi, oltre che per accesso agli strumenti di produzione messi a disposizione da un’organizzazione… cosi’come non basta una classe collegata su Zoom per fare didattica digitale.

Ma nell’agire comunicativo non immediatamente funzionale, il Covid19 è un dittatore. Persino sui social il 99% dei post e dei commenti sono monotematici. Eppure, visto che minaccia di tirarla abbastanza in lungo, dovremmo entrare nell’ordine di idee che sia possibile parlare d’altro. Potrebbe essere il buon intento per la Pasqua, restituirle la specialità di una giornata festiva introducendo argomenti che nulla hanno a che vedere con la pandemia. Ma dovremmo imparare a parlare d’altro

Parlare d’altro è in effetti un vero genere di comunicazione. Se le persone comunicano, in linea di massima, lo fanno per parlare della stessa cosa, o di più cose in sequenza. Il parlante d’altro si appropria di un potere: quello di dirigere la comunicazione. Per questo dobbiamo imparare a parlare d’altroche non sia il COVID19.

Il linguista Paul Grice, dopo avere individuato quattro regole cooperative che presiedono alle conversazioni, si è domandato perché in certi casi le persone le trasgrediscano. La sua conclusione è stata che a volte, per capire una conversazione, non bisogna mettere al centro quel che le persone dicono bensì quel che non dicono, oppure dicono in un modo che a un osservatore esterno potrebbe sembrare incongruo. Ecco perchè bisogna, di questi tempi, proprio parlare d’altro. Giorgio Manganelli in “Conversazione universitari”, in ”Lettura d’autore“ ha scritto: “Il parlare d’altro è molto interessante, forse di molto più interessante di quanto non sia il parlare di qualche cosa che ci si propone. Le parole hanno una loro qualità cattivante, insidiosa, aggressiva […]. La cosa più normale è quella di uscire di tema […], essere incoerente, e cioè di cominciare un discorso e poi di farsi sedurre lungo la strada dal prestigio delle parole […], dalle allucinazioni. Il fatto che le parole hanno dei suoni è fondamentale perché l’accostamento, il ritmo, la giacitura, il cadere, il giustapporsi o lo scindersi delle parole fa sì che queste parole agiscano in una maniera molto sottile, molto losca direi, leggermente impudica, proprio suggerendo delle immaginazioni e delle fantasie…”
Ecco perché si deve parlare d’altro di questi tempi, imparare a parlare d’altro. Parla d’altro e liberati dalla trappola. Magari funziona per questa Pasqua.

di Nicola Dario

 
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