Fara Filiorum Petri: dalle farchie alla Fara cipollara
Con il termine latino facula s’intende la fiaccola che illumina la notte. Con il termine dialettale farchia – che da facula deriva – si definisce, stando al Vocabolario dell’uso
abruzzese (1880) di Gennaro Finamore, il «fascicolo di canne da ardere come torcia a vento per far lume o per appiccar fuoco» (un’etimologia, questa, molto più convincente rispetto all’altra sostenuta, in tempi più recenti da Ernesto Giammarco). Chissà – aggiungo – se la luce che, la vigilia del S. Antonio, rischiara la notte di Fara Filiorum Petri è in grado di rischiarare e addolcire la vegetazione della fredda notte di gennaio. Certo è che le fiamme emanate dal rogo dei giganteschi totem naturalistici (fino a m 9 d’altezza con il massimo di m1 di diametro) lasciano visioni sognanti agli “stranieri” che convengono nella fascinosa zona del fuoco. Da quel lontano miracolo del 1799, generazioni e generazioni di faresi rinnovano la memoria dell’incendio salvifico. E può anche capitare che, nel corso del falò, l’occhio indiscreto del visitatore fuggevole riesca a immaginare cose impossibili alla loro stessa pensabilità.
Fara Filiorum Petri: le farchie alla vigilia di S. Antonio Abate
Che cosa può accadere, ad esempio, all’estraneo se, nel paese, durante la vampa, fantastica la presenza di una cipolla enorme (oltre 1 kg.), dalla forma schiacciata (per non dire piatta), bianca e, per di più, dal sapore dolcissimo? Che tace per evitare l’accusa di sognatore. E qualora lo stesso soggetto rappresenti a se stesso l’improbabile rinvenimento del seme perduto del bulbo in un vasetto di vetro abbandonato, nascosto in uno stipo della casa di un vecchio contadino? Che ha una fantasia molto sbrigliata. E che, al fronte dell’eraclitea materia che, mutando, resta simile a se stessa, ognuno può dare forma transitoria a ciò che è acceso nel pensiero dall’elemento igneo. I totem di canne infuocati, dunque, potrebbero suggerire la formazione di visioni incorporee e cangianti. Ma che cosa fa il fuoco! Ammalia suggerendo visioni ingannevoli! Può la sostanza purgatoriale par excellence indurre il viaggiatore a pensare l’impossibile? Niente di tutto questo. Rischiara lo sguardo di chi, per la prima volta, si avvicina alle fiamme con il crepitio che sembra voler sussurrare: «amico, le farchie di Fara annunciano la Fara cipollara». Che cosa? Cipolle? Sì, proprio cipolle, la riscoperta economia della comunità.
Fara Filiorum Petri: la cipolla piatta bianca
Nel momento della decrescita del manifatturiero, fondamentale diventa il ritorno alla biodiversità locale agroalimentare: l’incredibile cipolla di Fara Filiorum Petri apre a sentieri economici impensabili fino a qualche tempo fa.
È proprio il caso di dirlo: Fara è segnata da gigantismo. Non solo nel suo toponimo, che mescola sapientemente reliquiae langobardorum gentis con tardo latino. Ma aggiunge la straordinaria grandezza dei suoi totem ignei e delle sue cipolle. Che cosa aggiungere! L’abbondante chilo dei singoli pezzi, la loro piattezza formale, la lattescenza del bianco, il sapore dolcissimo rendono unico il prodotto. L’antropologia culturale delle farchie si coniuga con quella colturale degli antichi bulbi. La stessa storia del loro ritrovamento ha qualcosa di antropologicamente profilato che nulla ha da invidiare al valore gnomico e sentenzioso delle leggende abruzzesi sui tesori nascosti. L’incontro auspicabile è quello nella festa ad hoc durante la prima settimana d’agosto.
Quasi non bastasse, le vie di Fara Filiorum Petri sono state attraversate dalla living history allestita dal gruppo Benevento longobarda che, nella capitale della cosiddetta Langobardia minor, a giugno inscena la Contesa di Sant’Eliano. A luglio di quest’anno, Fara ha rivissuto il periodo di Arechi II, dove, nello scontro tra fare cittadine, viene lasciato emergere il concetto di fara.
Il gruppo di Benevento Longobarda in azione a Fara Filiorum Petri
Storia, antropologia, gastronomia, living history: tutti gli ingredienti che l’antico borgo di Fara offre al visitatore accorto che esclude dal suo orizzonte quel mordi e fuggi distruttivo che accompagna le torme sciamannate dei forzati del divertimento a buon mercato. No. Quello di Fara è tutt’altra cosa. E’ turismo di nicchia, raffinato, che attende amici, non “stranii”. Che aspira al dialogo intelligente nella piazzetta del paese, non all’indistinto rumore di fondo. Che, all’incontro tra le farchie del miracolo di S. Antonio e la contesa tra le fare, richiede un turismo ecosostenibile aperto alle specialità della fara cipollara e delle delizie derivate dai prodotti del latte di capra. Che cosa significa tutto questo? Che un’ offerta di questo genere è possibile solo in un piccolo borgo motivato nei suoi abitanti.
Luigi Murolo